Lockdown e rivoluzioneLa quarantena ci ha fatto scoprire i lussi della vita digitale, ma l’Italia non è pronta a garantirli

La reclusione forzata ha fatto fare all’Italia in dieci giorni quello che non si era riuscito a fare in dieci anni

Un amico architetto dice che, da quando il suo studio è in smart working, si lavora molto di più e molto meglio. Va in ufficio una volta al giorno, a controllare i computer accesi nelle stanze deserte, «sembra una stazione spaziale», dice. Il resto del tempo lo passa online, a coordinare progetti che vengono completati in tempi record. Per restare tali: l’iter burocratico per la loro approvazione prevede presenza fisica (più volte) in uffici fisici e con documentazione fisica, «mica ti accettano il dischetto».

Un’amica professoressa, da quando tiene lezioni a distanza, non ha nemmeno il tempo per un caffè: bisogna preparare i materiali, connettere tutti, la connessione è a volte fallace. Ma si lavora molto meglio, dice: gli studenti sono più attivi e attenti, nessuno legge il telefonino di nascosto e il gatto della professoressa, che ogni tanto salta sul tavolo, fornisce graditi momenti di distensione, con un coro di «che carino» e coccole virtuali. Un’altra docente racconta che grazie alla connessione a distanza sono riusciti a non far saltare il corso, al quale erano iscritti anche numerosi studenti stranieri da tutto il mondo, dalla Cina all’India. Ora seguono le lezioni dal loro Paese, con in più un considerevole risparmio sugli affitti milanesi. Ci sono molti più problemi con gli studenti italiani, che spesso hanno connessioni pessime. E con i server delle università, spesso non attrezzati per una moltitudine di accessi contemporanei e per uno scambio dati in sicurezza. E con i baroni di alcuni atenei, ansiosi di riportare l’insegnamento all’antica, anche perché lo studio a distanza renderebbe inutili molte università il cui unico vantaggio è la vicinanza a casa.

La quarantena 4.0 ha fatto fare all’Italia in dieci giorni quello che non si era riuscito a fare in dieci anni. Il futuro viene testato direttamente in beta-versione. Il tabù sul lavoro a distanza, imposto da dei datori di lavori convinti che il lavoro a casa equivale a non fare nulla, è stato ucciso dal coronavirus. Fino a dieci anni fa l’Italia proibiva il wi-fi pubblico per paura del terrorismo. Era il Paese che aborriva il telepass, la carta di credito e l’e-commerce per paura di frode e insorgeva contro ogni tentativo di limitare i pagamenti in contanti. Ogni iniziativa di digitalizzazione veniva bocciata in nome dei vecchietti analogici (perfino le famigerate babushke moscovite, tanto amate dai giornalisti e fotografi come archetipo vivente della tradizione, ormai da una quindicina d’anni utilizzano per la pensione, i trasporti e la sanità una smart card con chip). Ora i negozi online hanno esaurito lo stock di tablet sotto i 500 euro, gli over-80 in clausura si allacciano a Internet, l’e-commerce sta scoppiando e Netflix è costretto a ridurre la qualità dello streaming per il sovraccarico della rete.

Da un popolo di Fantozzi, avvitati alla scrivania e sommersi da montagne di carte e timbri, siamo diventati smart come californiani. Abbiamo scoperto i vantaggi di un’organizzazione flessibile, e ci siamo anche resi conto di quanto tempo perdevano in pause caffè con pettegolezzo davanti alla macchinetta, in riunioni spesso inutili, e ovviamente nel tragitto per raggiungere la sede di lavoro e tornare indietro. Il problema è che il nostro sistema resta fantozziano. I regolamenti, gli iter, gli uffici, le notifiche via posta, le infrastrutture, tutto è progettato partendo dall’utente analogico, tutto è tarato su uno standard arretrato già venti anni fa.

La rivoluzione dell’Italia digitale rischia di andare in collisione con la controrivoluzione del sistema (molte parti del quale, oltretutto, verrebbero messe pesantemente a rischio di venire sostituite da terminal e server). Lo sviluppo tumultuoso di nuovi metodi di produzione e socializzazione ha bisogno di un urgente adeguamento dell’impianto normativo, e va fatto adesso, subito, in questo momento quando passa tutto in cavalleria, e non dopo, a emergenza passata, quanto torneranno in azione quelli del «torniamo a come era prima». Si può fare, rapidamente e senza sollevare polemiche, come si è visto con quella “rivoluzione” della ricetta elettronica per i farmaci, ben nota (anzi, obbligatoria) per chi ha animali domestici, ma introdotta per gli umani soltanto grazie alla quarantena, evitando così di trasformare gli studi dei medici di base in focolai di virus.

Un piano per aprire lo spazio alla rivoluzione 4.0 che va fatto subito, anche per arginare l’epidemia. Perché, mentre i social se la stanno prendendo con i runner, tormento e invidia di quelli chiusi in casa nei centri cittadini, un buon terzo dell’Italia esce tutti i giorni per andare a lavorare. I settori che rimangono offline sono numerosissimi, e ogni giorno vanno a lavorare – e a rischiare il contagio – migliaia di operai, agricoltori, artigiani, meccanici, addetti ai trasporti, assicuratori, bancari, idraulici ed elettricisti, netturbini, conducenti di mezzi pubblici, addetti di lavanderie e imprese di pulizia, badanti, muratori e imbianchini. Applaudiamo dai balconi i medici (meriterebbero che ci mettessimo in ginocchio), ma come sempre ci dimentichiamo di loro, quando non li insultiamo vedendoli per strada.

Molti escono per garantire a noi reclusi arresti domiciliari in comodità, chi produce, impacchetta, trasporta, dispone e vende questi beni. Le cassiere dei supermercati sono delle eroine in prima linea, ma sarebbe più giusto obbligare i negozi a utilizzare soltanto le casse automatiche, almeno laddove sono già installate. Lo stesso vale per le banche e le assicurazioni. Alcuni lavori sono offline per la loro stessa natura, ma tanti si possono perfettamente svolgere a distanza. Perché, attenzione, lo smart working, o il lavoro agile, il termine autarchico preferito dal governo, è soltanto una raccomandazione al datore di lavoro. Non è un obbligo. E invece dovrebbe diventarlo, magari con incentivi di sgravi fiscali per l’acquisto di server, VPN, computer portatili e software per i datori di lavoro che si virtualizzano (risparmieranno sugli affitti). Probabilmente, questi benefit verrebbero in buona parte coperti da un incremento del gettito fiscale generato da chi produce, installa e commercia tecnologia.

Dall’esperienza di due settimane di quarantena è evidente che deve adeguarsi però anche la componente offline della smart economy. Il commercio online è esploso: fare la spesa online è diventato più difficile che comprare i biglietti per la finale dei Mondiali, e le società di trasporto stanno collassando sotto il peso delle richieste. Per le strade di Milano si vedono sfrecciare in continuazione i furgoncini dei corrieri trasportatori, ma nonostante questo le consegne subiscono ritardi quando non diventano semplicemente impossibili.

La mano invisibile del mercato presuppone l’immediata assunzione di nuovi corrieri, magazzinieri e operatori, magari reclutati tra i camerieri, gli addetti del settore fieristico e tanti altri lavoratori rimasti senza impiego e guadagno per colpa della quarantena. Ma la parola “assunzione” fa venire ai datori di lavoro italiani l’orticaria immediata. Assumere è difficile, soprattutto quando si rischia poi di dover licenziare. Eppure la quarantena non finirà tra una settimana, sarà lunga, forse tornerà nei prossimi mesi, come avvertono gli scienziati, e lavorare in un sovraccarico di emergenza è qualcosa che può durare una settimana, due, ma non mesi.

Anche perché un nuovo mercato scoperto in questi giorni – molti hanno fatto la spesa online per la prima volta – non si ridurrà più ai valori precedenti l’epidemia. Ci vorrebbe un provvedimento, almeno per la durata dell’emergenza, una sorta di Digital Jobs Act che faciliti e incentivi le assunzioni, soprattutto di chi è a rischio di non arrivare a fine quarantena senza morire di fame. Non possiamo continuare a dire che dopo il Covid-19 non saremo mai più gli stessi, mentre nello stesso tempo speriamo che tutto tornerà come prima. Anzi, speriamo di no. Se poi proprio abbiamo bisogno di demagogia, anche i vecchietti non potranno che beneficiare di una diffusione di servizi che li renderanno più accuditi e meno soli, anche a epidemia finita.