Potrebbe essere l’epidemia di coronavirus, che anche in Brasile dilaga a ritmo esponenziale, il capolinea della traiettoria politica di Jair Messias Bolsonaro, l’improbabile estremista catapultato alla presidenza a fine 2018 da una lunga serie di contingenze e casualità.
Dopo avere a lungo sottovalutato l’emergenza, cercando di adottare una postura simile a quella di Donald Trump, suo riferimento internazionale, il presidente brasiliano ha lasciato l’intera nazione esterrefatta con un messaggio a reti unificate di martedì sera: pronunciato con il consueto tono metallico, il discorso di pochi minuti è stata un’inquietante dimostrazione di superficialità e sottovalutazione. L’invito a sospendere le misure di contenimento adottate da sindaci e governatori, denunciate come politica della «terra bruciata», è stato accompagnato da una generale minimizzazione del contagio: un «raffreddorino», una «influenzina» che colpisce solo gli ultrasessantenni, per cui sarebbe insensato chiudere le scuole (come hanno fatto da giorni tutti gli Stati federali).
«Io poi – ha proseguito Bolsonaro – con il mio passato di atleta non avrei nulla da temere, anche se fossi contagiato», ha detto con riferimento alle insistenti voci che lo descrivono già positivo, nonostante le sue ripetute smentite. Una ventina di ministri e suoi stretti collaboratori sono rimasti contagiati subito dopo il viaggio in Florida di inizio marzo, in cui ha incontrato a Mar-a-Lago proprio Donald Trump.
Non è mancato il riferimento all’Italia, di cui è originario: «Il grande numero di vittime nel paese è dovuto alla quantità di anziani e al clima completamente diverso dal nostro». Ha concluso diffondendo false speranze di una rapida cura, citando improbabili ricerche in corso in istituti brasiliani che si sono affrettati a smentire.
Anche questo, come tutti i suoi proclami più recenti, è stato occasione in tutte le principali città per un fragoroso “panelaço”, la protesta in cui i cittadini esprimono il loro dissenso affacciandosi alle finestre e percuotendo le pentole, particolarmente rumoroso nei quartieri bene di San Paolo, Rio e Brasilia, aree dove alle presidenziali di diciotto mesi fa il suo consenso aveva superato il 60%.
Ma la reazione più dura è venuta dalla politica, dove in meno di un anno e mezzo si è sgretolata l’ampia coalizione che lo aveva catapultato alla presidenza come campione delle destre in contrapposizione al Partido dos Trabalhadores di Lula, messo fuori gioco al culmine di processi di dubbia credibilità dal giudice Sergio Moro, subito ricompensato con un posto da superministro del governo Bolsonaro.
Il giovane presidente del Senato, Davi Alcolumbre, una sua creatura, ha sparato a zero: «In questo grave momento il paese ha bisogno di una guida seria, responsabile e attenta alla vita e alla salute dei brasiliani, consideriamo grave l’attacco del presidente alle misure di contenzione del virus».
Poi, in una videoconferenza con i 27 governatori, Bolsonaro è stato duramente attaccato da João Doria, governatore dello stato di San Paolo, di gran lunga il più ricco e popoloso della federazione, che, chiarendo di parlare anche a nome dei colleghi della regione Sudeste, ha spiegato che gli Stati non accetteranno «la confisca da parte del governo federale di attrezzature e materiali sanitari, la nostra priorità in questa gravissima crisi è salvare vite».
Il presidente ha risposto accusandolo di muoversi per motivi elettorali, in vista delle presidenziali del 2022, mentre al suo fianco il vicepresidente (nonché suo successore, in caso di dimissioni o impeachment), il generale della riserva Hamilton Mourão, scuoteva la testa visibilmente contrariato.
Il giorno dopo, i 27 governatori sono tornati a riunirsi in videoconferenza per discutere delle misure anti coronavirus, ma stavolta con il presidente della Camera Rodrigo Maia, senza Bolsonaro. In una repubblica presidenziale è poco meno di una deposizione di fatto del presidente.
Nelle ultime ore il presidente, sempre più solo, è tornato a insistere sulla linea sconfessata da tutti gli Stati: #oBrasilnaopodeparar, il Brasile non può fermarsi, è l’hashtag diffuso in queste ore dalla Secom, l’organo di comunicazione ufficiale del governo e ripreso dalle migliaia di bot su cui il clan Bolsonaro ha costruito il proprio predominio mediatico.
Non sorprende che di fronte al dilagare dell’emergenza sanitaria, e al crescente isolamento del presidente, la cui inadeguatezza – personale, prima che politica – è ormai evidente a tutti, siano iniziate a circolare voci clamorose. Alcuni credono che Bolsonaro potrebbe dimettersi in cambio dell’immunità per i suoi tre figli, i chiacchieratissimi Carlos, Eduardo e Flavio, tutti in politica, su cui pendono inchieste per malversazioni e corruzione, e soprattutto l’infamante sospetto di vicinanza alle milizie di Rio de Janeiro, indiziate tra l’altro dell’omicidio di Marielle Franco, l’attivista dei diritti umani assassinata nel centro della città a marzo 2018.
Ad avanzare ipotesi in questo senso è stato Valor Economico, maggior quotidiano finanziario del paese, una testata del gruppo Globo, il megaconglomerato mediatico che tanta parte ha avuto nell’ascesa di Bolsonaro alla presidenza.