Anche l’ultimo incontro di lunedì sera fra Giuseppe Conte e i leader della destra è andato male, ognuno ha detto la sua e arrivederci e grazie. Le ore successive hanno confermato la totale assenza di feeling. Addirittura Matteo Salvini, che sta davvero perdendo la bussola, si è scagliato contro Giorgio Gori, un esempio di civismo, dimostrando di non volere non solo l’unità nazionale ma nemmeno quella regionale… Come si spiega questa perdurante incomunicabilità fra le due parti della politica italiana in un momento così grave?
Al netto di un duro grumo di natura psicologica e persino di una difficoltà a livello personale fra Giuseppe Conte e il tandem Salvini-Meloni, si nota da parte del governo un certo fastidio per il tambureggiamento polemico della destra e per questo suo rilanciare ogni volta un “più uno” che suona persino infantile; e dall’altra parte (è il rovescio della medaglia) un permanente complesso d’inferiorità unito a una mancanza di concretezza da parte di Salvini e Meloni, tanto che Conte e Gualtieri si sono perfino stupiti della inadeguatezza tecnica del capo della Lega. Malgrado gli sforzi del presidente Sergio Mattarella, dunque, il clima non migliora.
Non è un problema di strumenti, di sedi, “cabina di regia” o “tavolo permanente”. Questo è politichese. Poiché non è tempo di crisi di governo – come sanno tutti i protagonisti – la questione piuttosto riguarda il domani, il dopoguerra.
Con queste premesse, l’auspicio di un governo di unità nazionale per la ricostruzione del Paese dopo la vittoria sul coronavirus al momento appare una pia illusione. La discussione è certo prematura ma se ne parla. Il presidente delle Repubblica sarebbe orgoglioso di poter fare da maieuta di un governo unitario come quelli del dopo 25 aprile. Guidato da Conte o da Mario Draghi (questa mattina con la sua ricetta per la ricostruzione post coronavirus), un governo di unità nazionale con questa destra appare difficile se non impossibile.
Se nel centrosinistra il futuro appare ipotecato dal partito contian-democratico (con tutte le incognite del caso) è infatti proprio a destra che dovrebbe esserci una svolta. Il sovranismo e il populismo di Salvini stanno entrando in contraddizione con esigenze fondamentali poste dalla crisi attuale: un diverso e più forte governo mondiale; un nuovo ruolo delle competenze nella politica (come scritto decenni fa da Weber e Pareto nonché da un’infinità di pensatori di scuola anglosassone); una diversa qualità della democrazia e del ruolo del pubblico. Se è vero che diversi paradigmi della sinistra andranno rivisti, è a destra che sembra addirittura tutto da rifare, a partire dal cambio delle priorità e dei messaggi: quanto ci sembra fuori dal tempo la paura degli immigrati sulla quale Salvini ha dominato la scena negli ultimi anni!
Il capo leghista ha perso totalmente la capacità di comunicare, persino peggio del governo, segno che i suoi messaggi funzionano quando il disastro è apparente, mentre non funzionano quando è reale. Sarà dunque inevitabile a un certo punto porsi il dilemma se proseguire con il salvinismo o cercare strade nuove, con risposte pragmatiche e atteggiamenti più umani e liberali. Anche perché il dopoguerra avrà bisogno di figure politiche lontane da estremismi verbali e idee divisive: l’esatto contrario del salvinismo.
Carlo Calenda, che ha spesso il merito di mettere le pulci nell’orecchio, ha twittato: «Chiamare Giorgetti e Crosetto a scrivere il piano per la riapertura». Ecco, gente pragmatica come Giorgetti e Crosetto (ma ce ne sono altri) romperebbe con i canoni distruttivo-propagandistici dell’attuale destra a trazione leghista forse recuperando un’attitudine al confronto che l’attuale tandem della destra non ha.
Se dunque il dopoguerra necessiterà di competenza, pragmatismo e capacità di ascolto e mediazione, per l’uomo del Papeete non ci sarà spazio. E per la destra potrebbe persino essere una manna dal cielo.