Nel tempo dilatato e irreale che stiamo vivendo (quando è cominciato tutto…?), un tempo in cui ogni cosa, dalla più infinitesimale alla più maestosa cambia forma, consistenza, significato, siamo noi stessi un organismo nuovo. Corpi che cambiano, spiriti che vagano in attesa di un varco. L’udito si è fatto più vigile, lo sguardo finalmente immaginifico vede l’invisibile, spazia oltre le sbarre delle finestre (sì, tutte le nostre finestre hanno le sbarre), e ci si accorge di dettagli diventati improvvisamente fondamentali. Quando tutto sarà finito (arriverà mai quel giorno?), non pochi avranno bisogno di terapeuti che li aiutino a superare il trauma, come reduci del Vietnam. Negazione, rabbia, negoziazione, depressione, accettazione: sono le famose cinque fasi del lutto descritte da Elisabeth Kübler Ross. Abbiamo superato le prime tre, ci dibattiamo nella quarta e attendiamo con rassegnazione la quinta.
Attendere, attendere in silenzio, giocando a nascondino senza divertirci. Sbaglia chi considera l’evento più grandioso della nostra esistenza come una livella che ha pareggiato le distanze, “siamo tutti uguali”… Falso. Non lo siamo affatto. Così come la nostra felicità esiste solo se commisurata a quella degli altri, lo stesso si può dire dell’infelicità. Senza il beneficio del confronto non riusciamo a comprendere, i paragoni sono la nostra dannazione. Allora penso a chi in questo momento non può accorgersi della bellezza, che pure esiste. Non la vede, non può permettersi di coglierla.
Quando emerge, la bellezza, fa quasi male. Stamattina è spuntata su un tetto di Roma con le sembianze di un ragazzo di vent’anni, forse meno. Indossa una maglia azzurra, un berretto con visiera e porta a tracolla una chitarra elettrica. Qualcuno lo sta riprendendo, probabilmente il padre. Il ragazzo si sta preparando a suonare qualcosa, e si fa dare il tempo (one, two, three…) dal rintocco delle campane che improvvisamente lo circondano, lasciando intendere che la terrazza sulla quale si sta per esibire è circondata da chiese e campanili. L’inquadratura piano piano si allarga ed effettivamente vediamo spuntare il profilo inconfondibile di una cupola barocca, e intanto, con l’amplificatore acceso, il ragazzo attacca il suo assolo.
Se non vi commuovete con questa… #morricone pic.twitter.com/vTAuNLUxt6
— Francesca d'Aloja (@fdaloja) March 29, 2020
Basta la prima nota a sferrarci un cazzotto. Non è un pezzo dei Nirvana o dei Red Hot Chili Pepper come ci si sarebbe aspettato, ma il lamento struggente che accompagnava lo sguardo commosso di Robert De Niro ormai anziano, attraverso la fessura da cui secoli prima spiava la piccola danzatrice Jennifer Connelly in C’era una volta in America. Ennio Morricone, non Kurt Cobain. In simmetria con la scena evocata, anche noi siamo invitati a guardare ciò che poco prima si intravedeva. Oltre il parapetto di quella gloriosa terrazza scopriamo la piazza più bella del mondo. La vediamo come solo secoli addietro era stata vista, Piazza Navona: deserta, intatta, immacolata. E mentre la ripresa spazia scivolando giù in basso, sfiorando un tricolore che sventola e un gabbiano solitario, l’assolo di dolore e bellezza continua a ferire, a infierire sui nostri cuori infranti, come un Requiem.
Le note rimbalzano sulle facciate dei palazzi (anche sul mio di palazzo, qui, nel quartiere Trieste, dove il barocco non esiste) le statue della fontana, e colpiscono l’unico essere umano che si intravede al centro della piazza, immobile, col naso all’insù, per poi risalire in cima, dove tutto è cominciato. E solo adesso mi accorgo che il luogo in cui si svolge questo piccolo, miracoloso concerto (i concerti sui tetti hanno sempre il sapore del commiato…), mi è familiare, l’ho già visto senza esserci mai stata.
E quando d’un tratto capisco, e riconosco la terrazza sulla quale Sophia Loren appare bellissima e seminuda turbando così il sonno del giovane prete vicino di casa, in una scena del film Ieri, oggi e domani di Vittorio De Sica, faccio fatica a trattenere le lacrime. In quei tre minuti e mezzo di interludio musicale ho capito di essere inesorabilmente cambiata, ora mi commuove la retorica di certe manifestazioni e riscopro un sentimento di fierezza nei confronti della mia nazione che sinceramente avevo perduto, anzi, mi spingo a dire, che non avevo mai provato.