Due o tre cose per resistere alla “TV di merda”: meno talent, più Simona Molinari

Dopo trent'anni di tv spazzatura, il pubblico di massa si è abituato a programmi di pessima qualità facendoli passare per buoni. Tra questi 'Amici', in cui si è fatto passare per scherzo una molestia sessuale. La soluzione è una forma di resistenza senza sconti, che alla "merda" risponda "oro"

Credo sia arrivato il momento di andare oltre. Di passare dal concetto di, voi la pensate in un modo, noi in un altro, al facciamo due comunità diverse. Dividiamoci in squadre, tanto siete abituati a quel tipo di cifra lì, una delle poche che riuscite a comprendere. Voi da una parte, noi dall’altra. Voi dalla parte di chi pensa che far passare per normale una molestia sessuale in luogo di lavoro, noi dalla parte di chi, vedendo quella scenetta, per altro affatto divertente anche fosse stata dichiaratamente finta, si indigna, di più, prova raccapriccio. Raccapriccio che si estende anche a chi, vedendo quella scenetta, non prende posizione, non si dichiara indignato, non si sposta da questa parte del prato, non indossa la felpa della nostra squadra, giornalisti in testa. Voi dalla parte di chi ha reso la musica qualcosa di accessorio, privo di cuore, mera sequenza di note, con tanti nomi importanti lì a fare da avvallo a una visione da karaoke dell’arte più immediata del mondo, performance prive di vita di chi, in fondo, di vita nulla sa e nulla potrebbe dire, noi dalla parte di chi non capisce perché lamentarsi dei locali che ormai ospitano solo cover band quando grazie a voi è la cover l’unica forma di musica con diritto d’asilo. Voi dalla parte di un mondo fatto di nomi senza cognomi, di vestiti tutti uguali, di interpretazioni tutte uguali, di cori circensi di un pubblico in grado di capire solo gli addominali dei ballerini e i “ciaone” dei coach, noi dalla parte di chi ruba nei supermercati.

Tocca dividersi in squadre perché a furia di farsi passare tutto sotto il naso, a furia di rivedere al ribasso la realtà, a furia di turarsi il naso e far buon viso a cattivo gioco si finisce per non prevedere fisicamente che ci siano picchi verso l’alto, col risultato che poi va bene pure sentire un ragazzetto qualsiasi, uno che si crede stocazzo solo in virtù di una felpa con su un logo, dire che Hey You dei Pink Floyd non gli piace, il tutto senza che qualcuno pensi di punirlo corporalmente, a frustate con la cinta come Mario Brega in Borotalco, di stigmatizzare l’accaduto, magari anche di prendersi qualche responsabilità, perché a furia di parlare di artisti e di talento in presenza di gente che, in un mondo normale starebbe chiusa in cantina a studiare su uno strumento, schiaffoni in faccia a ogni errore, si finisce per crederci davvero, e un Roger Waters o un David Gilmour finiscono per essere sminuiti a favore di un brano inedito dell’autore di punta del momento (autore che, si suppone e si spera, un po’ di vergogna per questo lo prova, e corre in bagno a lavarsi la bocca con la candeggina). Stiamo di fronte a un paesaggio che prevede solo discese, senza mai modo di rialzarsi, il baratro, l’abisso lì fondo che ci aspetta con i denti appuntiti. Con questo menu che presenta solo piatti a base di merda come potremmo mai pensare che di fronte a un piatto sano e saporito la gente non provi spaesamento, se non addirittura disgusto, troppo abituata alle 50 sfumature di merda cui trenta e passa anni di televisione e di brutta televisione ci hanno abituato. Allora, come in certi film di fantascienza, dobbiamo mettere su una banda di ribelli, vivere a bordo del sistema, prevedendo di entrare nel sistema, come un virus. Crearci i nostri spazi, guardare verso l’alto, resistere, resistere, resistere. Sottolineare quando la merda è merda. Sempre, senza fare sconti. E al tempo stesso provare a mettere in piedi una rivoluzione, ricostruire le fondamenta. Colpire l’immaginario di chi non ha immaginario a suon di bellezza. Noi di qua e voi di là. Ma noi anche di là, in culo. Rispondere colpo su colpo. Merda? Oro. Merda? Oro. Sempre, giorno dopo giorno. Oro vs Merda.

Ci state dicendo che non c’è altro che questo torpore? Che è normale, Dio Santo, normale che un ragazzino che vuole fare il cantante, che si autodefinisce e che voi definite artista non sappia chi sono i Pink Floyd, o peggio li consideri scarsi? Ecco, allora partiamo davvero dall’ABC, e da chi questo ABC decide di portarlo in giro

Ma come, in concreto, possiamo indossare i panni del Neo di turno e provare a mandare a puttane la Matrice? Come possiamo entrare nei tessuti di Mr Smith e farlo implodere? Innanzitutto essendoci, ma dire questo è pleonastico. E poi essendoci con una visione ben chiara, vivida, inghiottire la pillola rossa e restare nel paese delle meraviglie a vedere quanto è profonda la tana del Bianconiglio.

E lì, nella tana del Bianconiglio di Meraviglie se ne trovano e quando le si trovano vanno esibite, come gli occhiali da sole nei primi giorni di primavera, quelli in cui Luca Carboni e i suoi amici scivolavano a Riccione a bordo di un cabriolet.

Partiamo da qui, quindi. Dai raggi di sole, quelli che ci sono, rigenerano e dimostrano, sempre che i raggi di sole debbano e possano dimostrare qualcosa, che in fondo non sarebbe così difficile cercare una strada magari meno dritta, ma decisamente più panoramica, il cielo sopra la testa, l’aria pulita.

Ci state dicendo che non c’è altro che questo torpore? Che è normale, Dio Santo, normale che un ragazzino che vuole fare il cantante, che si autodefinisce e che voi definite artista non sappia chi sono i Pink Floyd, o peggio li consideri scarsi? Ecco, allora partiamo davvero dall’ABC, e da chi questo ABC decide di portarlo in giro, facendo arte e al tempo stesso facendosi testimonial di un patrimonio musicale che sembrerebbe non essere più a disposizione dei più giovani, proprio oggi che con la rete avremmo in teoria tutta la musica a portata di click.

Partiamo quindi da Simona Molinari. La cantautrice aquilana da qualche anno a questa parte ha ripreso a occuparsi di jazz, per dirla citando il titolo del suo ultimo album un album di cover jazz, appunto, casa sua. Lo ha fatto dopo aver dato alle stampe quattro album in quattro anni, dal 2009 al 2013, Egocentrica, Croce e delizia, Tua e Dr.Jeckyl e Mr Hyde. Quattro lavori in cui aveva dimostrato, in un crescendo costante, importante, come il pop, perché è questo l’ambito nel quale la Molinari si è sempre mossa, agilmente, potesse serenamente flirtare con il jazz, lo swing, la musica colta. Eleganza, quindi, rimandi a una tradizione d’oltreoceano che però ha anche avuto nei nostri lidi esponenti di primo livello, da Franco Cerri a Lelio Luttazzi, tanto per fare due nomi presenti nella musica della cantautrice. Perché, e qui sta un’altra peculiarità tutta sua della Molinari, si può essere cantautrici, quindi avere una propria cifra compositiva, una propria poetica lirica, e al tempo stesso rifarsi al passato dello swing e del jazz, linguaggi cui evidentemente tocca saper dare del tu. Anche perché se la tradizione è presente nel rispetto e nella partecipe attitudine con cui le armonie, il ritmo e la melodia si susseguono negli spartiti, la modernità e contemporaneità non è da meno, con un uso mai pretestuoso dell’elettronica, a riprova che macchine e legni e ottoni possono convivere perfettamente, in sintonia. Quattro lavori, con le collaborazioni prestigiose di nomi come Ornella Vanoni, madrina del suo primo passaggio sanremese, nelle Proposte, anno 2009, Fabrizio Bosso o Peter Cincotti, con cui Simona ha collaborato nel 2013, tornando a calcare tra i Big il palco dell’Ariston. Quattro lavori che hanno poi lasciato spazio a un ritorno alle origini della nostra, con l’album Casa mia, nel quale la Molinari ci ha mostrato gli arredi del suo personale ghota musicale, accompagnata dai suoi sodali della Mosca Jazz Band e dalla Roma Sinfonietta, orchestra sinfonica di Ennio Morricone, jazz, swing, brani entrati di diritto nella storia musicale del Novecento, secolo al quale evidentemente la cantautrice guarda con culto e fascinazione.

E, per venire ai giorni nostri, Simona Molinari sta portando in giro un tributo a Ella Fitzgerald, insuperata interprete jazz di cui proprio in questi giorni ricorre il centenario della nascita. Uno spettacolo importante, proprio perché confronto con la tradizione, non didascalico ma divulgativo nel suo essere un sincero omaggio. Ecco, oggi, in un periodo di musica bidimensionale usa e getta c’è un’artista che decide di percorrere l’Italia con appresso la propria band per divulgare un verbo, quello del jazz, e per farci vedere che la musica è capace di fare quello in cui spesso gli uomini non riescono, scavallare i secoli, parlare una lingua che suoni attuale e antica al tempo stesso. Un’artista, una donna, capace di portare questo suo essere donna e artista sul palco, con la naturalezza di chi conosce il proprio talento (talento reale, non ipotetico).

Però, anche in questa storia c’è un però, sono ormai quattro anni e rotti che Simona Molinari non tira fuori sue nuove composizioni. Vuoi per questo suo giocare con le sue radici, con casa sua, vuoi perché nel mentre ha avuto una figlia. Quattro anni, di questi tempi, iniziano a essere tanti. Troppi, vista l’asfissia che ci attanaglia. Quindi, Simona, questo è un appello pubblico, non ci lasciare soli. Continua a omaggiare Ella, Dio te ne renda grazia, ma sbrigati a tornare in studio e quindi sul mercato con roba nuova. Qui è partita una guerra tra bande, noi da una parte, loro da un’altra. Tocca fare una rivoluzione, cominciamo da un paio di scarpe tacco tredici, un vestito in paillettes e un po’ di jazz nell’aria, io sto qui con lo zippo in mano.

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