C’era una volta il cinema – frutto di quindici anni di dialogo ininterrotto con Noël Simsolo tra Parigi, Cannes e Roma. Leggere questo memoir-intervista, finora inedito in Italia, è come ritrovare in una vecchia cassetta una voce che si credeva smarrita. Una voce acuta, divertita, ferocemente anticonvenzionale, che fra un aneddoto di vita sul set e una riflessione sul cinema finisce per rivelare i segreti di un regista che ha saputo trasformare gli anni del proibizionismo nel romanzo struggente delle amicizie tradite, delle vendette e degli amori perduti. E che, nell’oblio di una fumeria d’oppio come sulle carrozze di un treno a vapore, ha dipinto l’immagine del tempo mentre fugge via.
Sergio Leone (1929-1989) è stato un regista, sceneggiatore e produttore cinematografico italiano.
Un estratto da C’era una volta il cinema (Il Saggiatore)
Come è entrato in gioco Robert De Niro?
L’ho conosciuto quando stava lavorando in Novecento e non era ancora una star: si era semplicemente fatto notare in Mean Streets di Martin Scorsese. In quell’occasione gli ho parlato del mio film, promettendogli che sarebbe stato uno degli interpreti. Quando Milchan ha fatto ripartire la produzione, aveva da poco terminato di lavorare in Re per una notte con Scorsese, di cui era diventato amico. De Niro era già impegnato per ben diciotto mesi con un altro film, ma, senza dirmi nulla, ha sciolto il contratto per interpretare la parte di Noodles. Nel giro di pochi anni è diventato il più grande attore del mondo.
Come si è mosso per il ruolo di Max?
Preferivo fosse interpretato da un volto nuovo. Abbiamo fatto più di duecento provini, finché ho scoperto James Woods in uno spettacolo teatrale. Mi è piaciuto. Il suo provino non è stato decisivo, ma avvertivo una vera nevrosi dietro il suo strano viso. Era quello ad affascinarmi. E ho convinto De Niro che la parte dovesse essere sua, anche se Robert avrebbe preferito un attore del suo giro. E abbiamo fatto numerosi provini ai suoi amici! Per fortuna, è una persona onesta e, guardando i provini, ha ammesso che nessuno di loro avrebbe potuto davvero interpretare Max.
Con Joe Pesci le cose sono andate in modo diverso. Milchan gli aveva promesso il ruolo di Max. Io l’avevo trovato strepitoso in Toro scatenato, ma l’ho avvertito subito che non gli avrei dato quella parte: avrebbe interpretato un altro personaggio a sua scelta. E ci siamo messi d’accordo. Poi, De Niro mi ha presentato una sua amica, Tuesday Weld. In alcuni dei suoi primi film, era bella come Brigitte Bardot. E, dopo i primi provini, era evidente che poteva impersonare il personaggio di Carol…
E per i bambini?
Non volevo delle baby star. Solo dei ragazzi spontanei che sapevo come dirigere. Cis Corman, il responsabile del casting, mi è stato di straordinario aiuto…
Come sono andate le riprese con De Niro?
Giusto all’inizio, abbiamo avuto qualche discussione piuttosto animata. Ma ci siamo capiti molto in fretta. Un’intesa rara. Non solo comprendevo quello che voleva, ma mi accorgevo anche di desiderare la stessa cosa. Per fortuna, mi ha affiancato un ragazzo fantastico, Brian Freilino, che mi faceva da braccio destro. Parlava perfettamente sia l’inglese sia l’italiano. La sua presenza ha davvero cementato l’intesa tra me e De Niro. Tutti gridavano al miracolo, anche lo stesso Milchan, che aveva assistito personalmente agli interminabili battibecchi tra l’attore e Scorsese durante la lavorazione di Re per una notte. Con me, non ci sono state discussioni. Un’intesa totale e una fiducia assoluta. Bob rideva quando simulavo le scene. E queste risate erano una vera dimostrazione di complicità.
Per lei, C’era una volta in America è il più italiano dei film americani o il più americano dei film italiani?
Credo si possa dire che è il più americano dei film italiani. Prima di tutto, perché io sono romano e un po’ napoletano. Ho fatto un bilancio della mia vita e di tutta la mia esperienza con quel film. In fin dei conti, è una biografia su due livelli: la mia vita personale e la mia vita da spettatore di cinema americano. Nel dopoguerra, non mi stancavo mai di vedere film. Il cinema era diventato la mia droga. Così, in C’era una volta in America, compaiono degli omaggi che avevo il dovere di fare. Come la scena della charlotte russa sulle scale. È un omaggio a Charlie Chaplin. Non ho imitato un suo film, non ho citato una sequenza girata da lui. È la semplice manifestazione dell’amore che nutro per lui. E mi permetto persino di credere che avrebbe potuto girare quella scena esattamente così…
Ma prima di parlare in modo più dettagliato del film, ci tengo a dire quanto la versione tagliata svuoti l’opera della sua anima. È stata ridotta a uno sceneggiato televisivo di centotrenta minuti in cui si segue un ordine banalmente cronologico: l’infanzia, la giovinezza e la vecchiaia. Non c’è più il tempo. Non c’è più il mistero, il viaggio, la fumeria e l’oppio. È un’aberrazione. Non posso accettare che mi si dica che la versione originale era troppo lunga. Ha la durata esatta che deve avere. Dopo la proiezione al Festival di Cannes, Dino De Laurentiis mi ha detto che era magnifico, ma che si sarebbe dovuto tagliare una mezz’ora buona. Gli ho risposto che non era nella posizione per parlarmi in quel modo, dato che fa dei film di due ore che sembrano durarne quattro, mentre io faccio dei film di quattro ore che sembrano durarne due. È per questo che Dino non può capire. Ho aggiunto che era il motivo per cui non abbiamo mai potuto lavorare insieme.
In C’era una volta il West, si raccontava la fine di un mondo e l’inizio di un altro mondo. In Giù la testa, la manifestazione di una malattia. Mi sembra che, per lei, C’era una volta in America rappresenti la fine del mondo…
La fine del mondo. La fine di un genere. La fine del cinema. Per me, è proprio questo. Sperando che non sia davvero la fine. Preferisco pensare sia il preludio all’agonia. Tuttavia, c’è una sorta di speranza nello sguardo finale di De Niro. Come a dire: «Se avete capito che con film come questo si può salvare il cinema, amate i film e andate a vederli». Sì, è la fine di un genere. Sì, è la fine della sicurezza. Sì, è la fine di un mondo. Ma non è la fine di un sogno. E dopo l’uscita del film, ho capito quanto tutto questo fosse vero. Ne sono molto consapevole oggi, in questo autunno del 1986. Ho cinquantasei anni. Quando ho girato il film, ne avevo cinquantadue. E pensavo che stessi facendo qualcosa per le persone della mia età, con il ricordo di determinate esperienze e di un certo cinema. Non mi sbagliavo, perché a quella generazione il film è piaciuto molto. Ma sono i ragazzi di vent’anni ad averlo amato alla follia: alcuni di loro sono andati a vederlo venticinque volte di fila. Ragazzi che non hanno conosciuto quel tipo di cinema e ai quali i nomi di Griffith, Stroheim, Ford e persino di Chaplin non dicono nulla. Ragazzi che avevano solo dieci anni quando è uscito Giù la testa. E mi dimostra che esiste un desiderio naturale di vedere un certo cinema. Ed è questa la speranza!
Il film è anche la storia d’America trasfigurata dal sogno d’oppio?
La particolarità dell’oppio è di essere una droga che fa immaginare il futuro come fosse il passato. L’oppio crea delle visioni su quello che accadrà, mentre gli altri stupefacenti mostrano solo ciò che è stato. Così, mentre Noodles sogna come potrà essere la sua vita e immagina il suo futuro, io – regista europeo – ho la possibilità, grazie all’oppio, di sognare dentro il mito americano. Ed è questo il binomio perfetto. Si procede insieme. Noodles con il suo sogno. E io con il mio. Sono due poemi che si fondono. Poiché, a mio avviso, non è mai uscito dagli anni trenta, Noodles sogna tutto. Tutto il film è il sogno d’oppio di Noodles attraverso il quale io sogno i fantasmi del cinema e del mito americano.
In C’era una volta in America, le donne e il sesso hanno un’importanza maggiore rispetto ai film precedenti…
Era necessario. Non si tratta più di un western, ma di cinema americano, nel senso più globale del termine: sesso, passione, tradimento, amicizia e amore. E poi, oltre a Noodles e al mio sogno, c’è un altro protagonista: il tempo. E il tempo cambia tutto. All’inizio, Noodles è parte del gruppo. Fa dei lavoretti per i ladri più grandi di lui. Fino all’arrivo dell’arcangelo Gabriele, che è Max. E Max gli dice: «Noi ci facciamo ammazzare da soli. Senza padroni». È Max, l’anarchico! E Noodles impara la lezione, tanto che finisce in prigione al posto di tutti gli altri. Passa quindici anni in una cella. Quando esce, non ha cambiato idea. Ma il tempo ha cambiato le cose. E dovrà spingersi fino al tradimento per rimanere se stesso. Perché Max fa parte del sistema ora: sogna la politica, vuole lavorare per il sindacato. Noodles, invece, rimane fedele ai suoi ideali di sempre. Attraverso il sogno d’oppio, certo; ma, come ho già detto, grazie a questo sogno ho la possibilità di dare valore a tutto il mio amore per il cinema, al mito e alla ragione del fare cinema. È qualcosa di complesso. Tanto che non potevo mostrare direttamente la morte di Max alla fine del film. In particolare, non si poteva fare un primo piano di Max quando Noodles se ne va da casa sua. Non in quel momento, visto che il mondo che Max si è costruito ormai serve solo per essere gettato nella spazzatura dell’America di oggi. Non si tratta più di individualismo, ma di sindacato. Ed è la fine dell’idea di libertà.
Data la compresenza di tutti questi sentimenti, ho chiesto a Ennio Morricone un lavoro diverso dal solito. Siamo partiti da una canzone dell’epoca, Amapola. Poi ho voluto aggiungere dei brani ben precisi: God Bless America di Irving Berlin, Night and Day di Cole Porter e Summertime di George Gershwin. Oltre alla musica originale di Morricone e alle grandi melodie del passato, ho aggiunto qualcosa di odierno: Yesterday di John Lennon e Paul McCartney. In modo da toccare alcuni punti essenziali: la nostalgia di un mondo, la lucidità di questa nostalgia nella mia testa, e forse nella realtà… Si applica al mio immaginario.
Peraltro, in questo film, è la pittura di Edward Hopper, Reginald Marsh e Norman Rockwell ad avere un ruolo catalizzatore. Non più Max Ernst o Giorgio De Chirico, com’era stato nel Buono, il brutto, il cattivo. Anche per la scenografia del ghetto è stato necessario recuperare tutta una realtà, sommersa nel passato. Mi hanno proposto di utilizzare le strade in cui Coppola aveva messo in scena Il padrino – Parte ii, ma non le trovavo così interessanti. Ho preferito servirmi di alcuni scorci del ghetto, con il ponte di Brooklyn sullo sfondo. Mi emozionavano di più. Oggi, però, in quei luoghi non si trova più il quartiere ebraico. Ci abitano i portoricani e, per questa ragione, mi hanno sconsigliato di girare lì perché troppo pericoloso. Ma non ho ceduto a queste pressioni. E ho avuto ragione, dato che i portoricani non hanno creato il minimo problema. Sono sempre rimasti lì, ma si sono comportati in modo corretto e non ci è stato rubato nulla. Forse perché eravamo italiani. Magari ci hanno persino protetto molto più di quanto pensassimo, ladri intenti a controllare che non ci rubassero nulla!
C’era una volta in America fonde una scrittura classica e una struttura frammentata e moderna.
Ci ha richiesto un lavoro immenso. All’inizio del film, viene fornita una mole di informazioni che lo spettatore riesce a comprendere solo in seguito. Come le ho già detto, tutta la struttura di C’era una volta in America si basa sul tempo. E ci sono anche molte carrellate di cui non è semplice capire il significato, perché non vengono usate per descrivere una città, una strada o un luogo. La camera si muove per seguire un personaggio che si sposta in uno spazio che non è nient’altro che il tempo. Ed è ovviamente meno spettacolare, dato che metto la tecnica al servizio dei sentimenti, non la uso più come mezzo per far scoprire un mondo, una storia o un universo, come nel caso di C’era una volta il West. In quel caso, quando la gru si alzava, mostrava una città che stava sorgendo. Qui, invece, la città c’è già. Dunque non c’è bisogno di mostrarla.
Sono consapevole dell’apparente staticità del film. In realtà, non smette mai di muoversi. Ma questa staticità viene percepita proprio perché riguarda il tempo: tutto si è fermato nella fumeria d’oppio. E tutto parte proprio da lì.
Tutto questo però non esclude il realismo.
Diciamola tutta: in un sogno del genere serve il realismo. Per far sì che la storia funzioni, con così tanta mitologia del cinema, è necessario darle una dimensione documentaristica. Girare come se la cinepresa fosse nascosta. Produrre degli effetti simili a quelli che mi facevano vivere il cinema di una volta. È necessario che sia credibile! Ed è per questo che tutti i luoghi sono reali. Sono andato a cercarli. Anche in questo caso, è stato un po’ come andare alla «ricerca del tempo perduto». La stazione centrale di New York di quell’epoca non esiste più, è stata distrutta. Ma sapevo che si trattava solo di una replica della Gare du Nord di Parigi, e così ho girato quelle scene proprio alla Gare du Nord di Parigi. Le stesse vetrate, le stesse colonne di cemento e di pietra: gli stessi materiali. Stessa cosa per l’hotel di Long Island, dove Noodles porta Deborah. Quel luogo non esisteva più, ma assomigliava molto ad alcuni palazzi di Venezia. Così, ho girato la sequenza a Venezia. È ovvio. Gli Stati Uniti non hanno fatto altro che imitare l’Europa per questo genere di luoghi. Seguendo il mio intuito, ho girato all’interno di modelli originali. Non per snobismo o sciovinismo, ma soltanto perché quell’epoca non si poteva più trovare in America. Tutto è perduto, dimenticato, distrutto… E io, per fare un film sui ricordi e sulla memoria, dovevo ritrovare delle vestigia della realtà. Per rendere in maniera compiuta la mia concezione del mito e del sogno, dovevo lavorare sulla più solida delle realtà. A partire da questo, tutto discendeva a cascata. Il tempo è il protagonista del film e il tempo ha sempre ragione. Ecco perché Noodles ritorna al presente sulle note di Yesterday, attraversando un quadro di Reginald Marsh, con la mela rossa dell’America di oggi. Non si vendono più biglietti dell’autobus, la Hertz ora noleggia automobili per entrare all’inferno. È logico, essendo il mio film anche un viaggio negli inferi.
Lei prova un grande affetto verso il personaggio di Noodles?
Ho scritto qualche riga a questo proposito. Gliele leggo subito. Le spiegheranno che rapporto ho con questo personaggio… Ascolti: «Vedevo Noodles bambino nel Lower East Side di New York. Lo vedevo ragazzino al servizio dei gangster. Poi, lo vedevo uccidere dei cristiani con calcolo e passione. Dopodiché, lo osservavo mettersi in gioco da solo per fare una guerra senza successo ai grandi capi del crimine organizzato. Ma Noodles non era Dutch Schultz o Peter Lorre, Alan Ladd o Lucky Luciano, Al Capone o Humphrey Bogart. Nessuno faceva caso a lui: lo sguardo del mondo l’aveva attraversato come se fosse la vetrina di un bar. Era Noodles. Tutto qua. Un trascurabile ebreo del ghetto. Un signor nessuno che aveva tentato la fortuna con un mitra Thompson in mano, nell’era in cui l’alcol era vietato e il gioco della violenza urbana ancora vivo nella memoria. Come migliaia di altri piccoli delinquenti, sopravvissuti alla guerra tra gang, poi rinchiusi dietro le sbarre di un penitenziario, era stato crocifisso su una croce troppo grande per lui. Pure d’estate portava quel cappotto grottesco, tipico del gusto dei gangster. Nonostante il suo fascino abietto e il suo aspetto evocassero l’Actors Studio, quel cappotto ballonzolava intorno a lui. Troppo largo, come se fosse il regalo di un buon samaritano crudele a qualche ubriacone della Bowery. Non gli andava proprio bene. E le cose avevano preso una brutta piega per lui. Tradito, ricercato, disconosciuto, dilaniato, era dovuto fuggire. Ma ero solidale con lui per altre ragioni. Mano armata confermava una mia vecchia idea. L’idea che l’America era un mondo di bambini… Anche Chaplin, a suo tempo, lo aveva dovuto credere. E oggi, sono certo che lo pensi anche il mio amico Steven Spielberg. Noodles era uno di questi bambini. Non un boyscout di Frank Capra, con la vocazione di aiutare Mr. Smith a salvare il mondo. Era piuttosto un bambino che mostrava i denti e stringeva il coltello in tasca. Una specie di Mickey Rooney sfortunato che non avrebbe mai incontrato Spencer Tracy vestito da prete nella Città dei ragazzi…».
La scena in cui Noodles stupra Deborah mi sembra di importanza capitale.
Assolutamente. Durante il Festival di Cannes, una imbecille mi ha accusato di compiacimento misogino e di sadismo antifemminista a causa di questa sequenza. Non aveva capito nulla. Le ho detto che non ero antifemminista ma che, se tutte le femministe fossero state come lei, mi sarei dato da fare per realizzare in fretta un film contro di loro! Ero veramente arrabbiato perché le sue accuse erano del tutto assurde. Questa scena di stupro è un grido d’amore! Noodles ha appena scontato quindici anni in prigione, durante i quali non ha mai smesso di pensare a quella donna che viveva fuori dal carcere. L’ha sempre amata alla follia. E non appena ritorna libero le chiede di uscire insieme. Le racconta tutto di sé… tutto quel che ha fatto! È un gangster di professione, ma il suo amore è così grande che non può nasconderle nulla. La porta in un luogo splendido che affitta per una fortuna… e solo perché lei possa scegliere il tavolo che più le piace. Per restare soli e felici… Lui la ama così tanto che si comporta come un principe. Trasforma quella serata in una favola e le confessa tutto il suo amore. Le racconta quale luce sia stata per lui durante i quindici anni di reclusione. E allora lei gli risponde: «Sono qui solamente per salutarti. Domani parto per Hollywood». Lei sta per andarsene e diventare un’effigie a Hollywood, tornando a essere un’effigie per Noodles! Lui la ascolta in silenzio. Tranquillo. Ha incassato questa terribile lezione senza battere ciglio. Ma ecco che lei in macchina gli dà un bacio di consolazione. Come per dire: «Povero piccolo. Ti do un bacio, visto che sei un po’ arrabbiato con me». A quel punto, Noodles non ci sta. Vuole che parta con un ricordo che non scorderà mai più. E la distrugge con il massimo della violenza. Potrebbe prenderla con dolcezza, violentarla senza brutalità. Lo sa. Lo sente. Lei lo lascerebbe fare. Ma preferisce la brutalità, in modo che lei se lo ricordi per sempre. Pensa che si sia già dimenticata di tutta la bellezza che le ha offerto quella notte. Vuole essere certo che lei si ricordi della violenza del suo atto, ed è la violenza più disperata che possa esistere.
Quando ho girato la loro lotta, ho voluto che si vedesse Deborah abbozzare un gesto di tenerezza nei suoi confronti. La verità affiora così durante il sacrificio. Lei ama Noodles. Capisce tutto. Capisce in particolare che nessuno la amerà mai quanto la possa amare Noodles. E quando, poi, lei lo respinge in nome di Hollywood e della sua carriera, lui cerca di scusarsi per l’abuso compiuto. Per capire meglio questa sequenza, è opportuno conoscere la mentalità di un gangster: è un uomo che ha sempre considerato le donne come oggetti sessuali. Ma stavolta, a dispetto dello stupro, si tratta di una questione di rispetto. Di amore. È l’amore. Ed è il suo sogno più grande, quello che Deborah ha appena mandato in frantumi, annunciando la sua partenza. Era un’effigie. E sta per ritornare a essere un’effigie. In quell’istante di esasperazione, Noodles può conoscere la sua carne. Ma niente di più.
Lei vuole diventare un’attrice. E, in fondo, gli attori non sono che maschere e automi. Sono perduti, si dimenticano della loro identità originaria. E quando la ritrova, trentacinque anni dopo, lei indossa una maschera di trucco bianco. Ora è soltanto l’attore! E Noodles le cita una frase dell’Antonio e Cleopatra di Shakespeare: «L’età non può invecchiarla…». Deborah può mostrarsi solo nelle vesti di un mito, come una rappresentazione dell’attore. Essere attore è come una malattia. Durante le riprese di Giù la testa, ho detto a Rod Steiger: «Che cos’è la tua vita? Interpreti Napoleone. Per un anno, sei Napoleone. Durante i sei mesi successivi, continui a esserlo per via della stampa e della promozione del film. E sei mesi prima dell’inizio della lavorazione, ti sei già immedesimato per prepararti alla parte. Ed ecco poi che passi da Napoleone a uno sbirro testardo per interpretare La calda notte dell’ispettore Tibbs. E diventi questo stronzo di poliziotto per mesi e mesi. Un processo che si ripete senza fine. E più credi nel sistema dell’Actors Studio, più entri nella psicologia dei personaggi che interpreti. Ma dov’è il vero Rod Steiger? Ti ricordi di lui? Mi puoi dire com’è?». E Rod mi ha risposto: «No. La mia vita è questa». Ecco perché gli attori sono bugiardi. La loro malattia li trasporta sempre in un altrove.
De Niro è camaleontico, un uomo che non si nota per strada. Non è un po’ come Noodles?
È un signor nessuno. Per interpretare la parte di Noodles anziano, si è realmente trasformato esteriormente e interiormente. È una cosa che pochi attori sanno fare. E volevo questo realismo di fronte a Max. L’invecchiamento di Woods è, al contrario, volontariamente teatralizzato. La differenza è enorme. Max è invecchiato come in un incubo: è il teatro! Solo Noodles è dentro la realtà.
Perché pensare ancora al Viaggio al termine della notte? Con questo film, lei lo ho già realizzato. Non è d’accordo?
Le confesso che ne sono totalmente consapevole. E le dirò di più. Trovo difficile pensare a nuovi progetti. Già dopo C’era una volta il West avevo parecchi dubbi. Mi domandavo se non stessi per dire addio al mio lavoro. In questo caso, è un po’ diverso perché si tratta di un film prima di tutto sul cinema. Non ci sono solamente la nostalgia e il pessimismo. Ho scritto qualcosa a proposito: «Ai miei occhi, Mano armata era una di quelle palle di cristallo per turisti, con dentro una piccola Tour Eiffel, un Colosseo in miniatura o una mini Statua della Libertà. Si rovescia la sfera e, con fiocchi grossi e fitti, si vede cadere la neve. Ecco che cos’era l’America di Noodles. E la mia. Minuscola, favolosa, perduta per sempre».
Devo aggiungere che questo film rappresenta anche una dolorosa vendetta. Sì, mi sono vendicato di tutto quel che l’America e il cinema mi avevano messo in testa. E riconosco quanto C’era una volta in America sia diverso dalle mie opere precedenti. Questa volta, lavoravo con una lucidità totale sulla direzione di quel che stavo facendo. Nessun interrogativo. Né la minima perplessità. Non avevo dubbi. Ero trasportato in un viaggio del cui corretto svolgimento ero sicuro. Parlo anche della lavorazione. Sono davvero contento di aver aspettato quindici anni per realizzarlo. È stato importante tutto questo tempo. Ci ho riflettuto quando ho visto il film, una volta terminato. E ho capito che, se l’avessi girato prima, sarebbe stato solo un film come gli altri. Ora, C’era una volta in America è il film di Sergio Leone. E io sono questo film. Una pellicola del genere si può fare solo nella maturità, con i capelli bianchi e con tante rughe intorno agli occhi. Non avrei mai potuto realizzarla in questa maniera se l’avessi girata a quarant’anni…