«Siamo stati, in altri termini, una generazione impolitica. Viandanti solitari sui sentieri della ricerca di una felicità individuale, non abbiamo conosciuto la politica come sentimento di appartenenza a un comune destino. Ebbene, dobbiamo assolutamente scoprirla ora. E dobbiamo imparare in fretta. Dobbiamo rimediare al lento apprendistato che non abbiamo avuto. Appartenere a una comunità di destino, a una comunità politica, significa anche elevarsi all’altezza di un sentimento tragico della vita, lottare per la vita, desiderare la vita sapendo di galleggiare in un luogo incerto tra due estremi, tra l’essere e il nulla».
Queste frasi non le ha scritte Mussolini prima di chiamare gli italiani a una dei tanti conflitti armati a cui li ha costretti, evocando la debolezza “borghese” dei suoi concittadini , “panciafichisti” per storia e antropologia, incapaci di concepirsi come un popolo guerriero proteso a condividere con entusiasmo il “destino” che il fascismo aveva progettato per loro. E non sono parole nemmeno di D’Annunzio che dagli scogli liguri lanciava la sua battaglia interventista in nome di un radioso destino della nazione impegnata nel cimento bellico.
No. Questa è la chiusa di un articolo che lo scrittore Scurati ha pubblicato a piena pagina sul Corriere della Sera (Prova di maturità per una generazione baciata dalla sorte, 11 marzo) per commentare la diffusione del coronavirus e i provvedimenti governativi. Evidentemente a forza di studiare il Duce e di scriverne la biografia romanzata si è fatto coinvolgere dal sogno totalitario senza rendersi conto che il fascismo, come il comunismo trovano proprio nella rifondazione della nazione come comunità di destino la più radicale alterità con la democrazia liberale. Quest’ultima fonda l’appartenenza nazionale, come diceva Renan, su un «plebiscito di ogni giorno», cioè su una continua scelta consapevole di appartenere a una “patria” comune da parte di cittadini che forgiano liberamente i loro destini individuali e che convivono pur avendo visioni assai diverse sul suo futuro. Invece nei regimi totalitari i cittadini diventati sudditi hanno la sola libertà di “credere obbedire” al destino che l’ideologia del regime ha imposto con la forza a tutti, sia esso l’impero mediterraneo di Mussolini, la Grande Germania ariana di Hitler o il comunismo staliniano. L’esito della comunità di destino è Auschwitz o Kolima, non una solida patria comune in grado di reggere alle sfide della storia.
Anche di fronte alla prova difficile di una esperienza inusitata e preoccupante come quella di combattere un’epidemia particolarmente contagiosa, non bisogna assolutamente perdere il senso delle parole che si usano, perché esse possono avere come in questo caso un senso del tutto opposto a quello che probabilmente Scurati gli ha attribuito, cioè una comunità di persone in larga misura consapevoli che affrontano con dignità una prova difficile della storia nazionale, che non hanno mai affrontato in passato. Sono parole non “innocenti”, che non si possono usare a caso per un pezzo giornalistico “di colore”, perché il danno può essere incommensurabile.
Se si mantiene il senso delle proporzioni che è il più importante contributo che lo studio del passato può dare alla comprensione del presente ci si accorge che l’Italia non è in bilico tra «l’essere e il nulla» – frase fatta che non vuole dire niente -; né gli italiani hanno bisogno di elevarsi alla riscoperta del senso tragico della vita perché non stanno vivendo nessun cimento estremo come la guerra mondiale, e nemmeno hanno vissuto gli ultimi cinquant’anni tra uno spritz e l’edonismo “reaganiano”, ma si sono rimboccati le maniche per lavorare, realizzare i loro sogni, crescere i propri figli, partecipando liberamente alle scelte a cui il paese è stato chiamato.
La circostanza storica che due generazioni fortunatamente non abbiano mai conosciuta tragedie come la guerra, non si deve tradurre in un giudizio sommario di superficialità morale, rispetto a quelle che invece sfortunatamente sono state travolte dalle guerre, ma l’esito di una straordinaria esperienza di libertà e democrazia che si è affermata in occidente, proprio in virtù della morte di milioni di persone che tra il 1939 e il 1945 che con il loro sacrificio avevano cancellato per sempre la follia delle comunità di destino fasciste.
Non c’è bisogno della “comunità di destino” per seguire le indicazioni dello stato per combattere un’epidemia, per dimostrarsi una comunità nazionale matura e consapevole della necessità di uno sforzo straordinario; basta essere appunto una grande nazione europea fatta di individui che sanno sperimentare la complessità delle dinamiche collettive che spesso chiamano la libertà di ciascuno di noi a misurarsi con i vincoli del bene comune.
Come non c’è bisogno di una dittatura per fare arrivare i treni in orario, come si diceva del fascismo, così una buona democrazia è in grado di fare rispettare lo stesso alcune disposizioni di interesse pubblico per evitare di soccombere sotto l’aggressione di un virus sconosciuto.
*Presidente della Fondazione PER