Francesco Merlo ha scritto su La Repubblica che Milano è una malata immaginaria, che «non reagisce alla fama di città appestata che ingiustamente la mortifica e la isola», che «paga virus percepiti». Sarà. Della esagerazione ho paura in generale, in assoluto, sempre, ma quella dei milanesi mi sembra così inevitabile, legata com’è a dei dati concreti, e certo anche alla psicosi, ma in maniera più ridotta, che non riesco a condannarla, non riesco a dire «uscite, sciocchi!», anche se io lo farei, uh se lo farei, ché Milano deserta è stupenda, bella come un albero di Natale di giorno, che già ti sembra bellissimo e perfetto, ma che sai che non è ancora abbastanza, che darà il meglio alla sera, con il buio intorno.
Invece, mi tocca uscire a Roma, e affrontare il panico, che solo in questa città riesce a non lavar via il cinismo, e quindi mi tocca affrontare il panico e il cinismo, due cose che in un qualsiasi altro posto del mondo non dico che si annullerebbero a vicenda, ma almeno non potrebbero coesistere. E invece qua sì, eccome.
Direi anzi che Roma è la casa della perfetta, incredibile, pittoresca simbiosi tra panico e cinismo.
L’ultima volta che ho visto i romani avere a che fare con un’emergenza, qualcosa di straordinario, imprevisto, inatteso, aveva nevicato. C’erano tre centimetri di neve. E tutti erano usciti con i doposci ai piedi, i giacconi della settimana bianca del ’97, le fasce di pile in testa. Il giorno dopo era tutto sciolto, ma i romani tennero le catene alle ruote per tuttala settimana a venire. Mi ero sentita molto a casa, mi aveva fatto ricordare il vicino di casa dei miei genitori che toglie le luci di Natale a luglio, dopo la festa della santa patrona della città (sono meridionale, naturalmente). Mi ero sentita anche molto in pericolo, mi ero detta che se mai ci fosse stata una catastrofe, per Roma e i romani, che pure vivono nella fatiscenza, nel caos, nella marcescenza (Roma in semen ipsa marcescit, scrisse forse Gregorio Magno, mica Calderoli), sarebbero stati guai seri.
Adesso c’è il coronavirus e qui sì che è un virus percepito, e la città è deserta come fosse Ferragosto, e anzi peggio, perché di tedeschi e inglesi e francesi e americani non se ne vedono più, neanche dove se ne vedono sempre, a qualsiasi ora, e sempre impegnati a fare la stessa cosa, e cioè mangiare una pizza orrenda, che però sembra renderli contenti, cosa che è una delle forze di Roma: rifilarti orrori che però, per via del clima, del Colosseo, dell’Aniene, dei pini, di Amore e Psiche, ti rendono felice. Comunque. Niente turisti nel bar all’angolo tra Piazza Venezia e via del Corso, un posto dove ho visto mangiare granite la notte di Capodanno a dei tedeschi. Niente romani sugli autobus (di molto ridotta persino la presenza di barboni sui mezzi che vanno da Termini a Torpignattara). Niente scolaresche sui Fori Imperiali, dove tocca litigare con gli spagnoli per l’occupazione del marciapiedi persino alle cinque del mattino di qualsiasi stagione, a qualsiasi temperatura.
Per la prima volta da quando vivo a Roma (quindici anni, datemi un assessorato alla resilienza), stamattina mi è stata data la precedenza al bar. L’individuo che aveva diritto a fare la sua ordinazione quanto me, perché era arrivato al banco insieme a me, mi ha detto: fai tu. E s’è andato a sedere, a molti metri da me.
Mi ha servita lo stesso barista che da diverse settimane mi tiene il muso perché qualche sabato fa, al suo quattordicesimo «perché sei triste?», ho osato fargli notare che non ero lì per fare una seduta di psicoterapia bensì per leggere i giornali mangiando un cornetto (due, ché era sabato, e meritavo un premio). E oltre a tenermi il muso mi serve sempre con estrema lentezza, per farmela pagare. Tranne stamattina. C’è il coronavirus, quindi m’ha servita in un lampo, deve aver pensato meno respira qua questa stronza classista e meglio è, e allora io ho bevuto il cappuccino di corsa e il cornetto l’ho finito per strada, perché temevo svenisse, e mentre uscivo l’ho visto passare uno straccio bagnato sul banco dove gli ho pure lasciato la mancia. Nell’ultima settimana ho visto romani (maschi, devo dire, tutti maschi) aprire porte con i guanti. Con i fazzolettini di scottex. Con le maniche della felpa. Spesso, si trattava delle porte di casa loro.
Ho visto padri prodursi in stellari acrobazie per aprire il portone di casa loro con i gomiti. Non ho avuto cuore di filmarli.
Una mia amica mi ha detto che un suo collega, quando l’ha vista starnutire, le ha dato dell’irresponsabile ed è andato a casa. Smartworking.
Uno che da tre mesi (TRE) mi invita due volte a settimana a bere una birra, è sparito da dieci giorni. Dileguossi. Niente birra. Ha deciso che ho il coronavirus e, soprattutto, ha deciso che se mai dovessimo vederci, io lo bacerei e quindi meglio evitare. Il panico mica lenisce la mitomania. Neanche il cinismo la lenisce. È una malattia irreversibile.
Un’altra mia amica, la scorsa settimana, ha osato dire in ufficio che aveva l’emicrania. Ostracizzata. Dal giorno dopo ha preso a dire ad alta voce «ho le mestruazioni», di modo che tutti si tranquillizzassero e pensassero che le girava la testa per via del ciclo. Niente da fare, l’ostracismo a quanto pare continua.
Una mia amica è stata licenziata. Il suo datore di lavoro le ha detto che non sa se nei prossimi mesi sarà in grado di garantirle lo stipendio, di certo per questo mese no, e allora meglio andare sul sicuro e fare in modo che almeno prenda la disoccupazione. Poi, le ha detto, quando trovano un vaccino ti riassumo. Scherzo, ha aggiunto.
La settimana scorsa sono andata a un concerto all’Auditorium. La sera successiva ero stata invitata a cena: la persona che mi aveva invitata mi ha detto che preferiva evitare, aveva visto la mia Instagram stories del concerto, c’era molta gente, sai a casa ho due bambine piccole, ti spiace se rimandiamo?
Neanche una scusa, non ho meritato neanche una scusa, un allagamento improvviso, una gravidanza isterica, un divorzio fulminante, un scusa sai ma ho trovato mio marito a letto con il suo segretario. Niente. Mi è stata rifilata la pura verità. L’ostensione serena della psicosi, dell’irragionevolezza.
Siamo soltanto all’inizio e Roma è già un’enorme sala parto a cielo aperto, piena di padri che urlano, fanno foto, infastidiscono l’ostetrica, fanno domande cretine, prendono iniziative ancora più cretine e inutili, e alla fine, per fortuna, appena vedono che una a due metri di distanza da loro comincia a perdere sangue, svengono. Certo, poi c’è la seccatura di soccorrerli, ma una volta che rinvengono si mettono in un angolo e tacciono. Almeno tacciono.