Sono in tanti a occupare il banco degli imputati dell’emergenza coronavirus. Aumentare o meno il numero dei coinvolti dipende dal punto di vista con cui si guarda il problema. La Cina con la sottovalutazione iniziale del contagio, l’Europa senza strumenti, i Paesi confinanti che bloccano le merci, i governi che non agiscono in fretta, e naturalmente coloro che in questi anni hanno malgestito o poco finanziato la sanità.
Ma come è la situazione reale? I numeri assoluti in questo caso hanno meno valore di quelli relativi, in rapporto al reddito, al PIL, e alla popolazione. E se è vero che i famosi 37 miliardi di tagli sono un po’ una bufala, almeno se chiamiamo tagli la diminuzione di spese già realizzata e non solo previste. Però altrettanto vero che l’attenzione alla salute nel nostro Paese non è riuscita ad aumentare nel tempo come altrove, nonostante l’invecchiamento della popolazione più deciso, e neanche ha saputo tenere il passo con la pur asfittica crescita del Prodotto interno lordo nazionale.
Nel 2018 la spesa pubblica per la Sanità ammontava al 6,5% del PIL in Italia. Eravamo a metà classifica, lontanissimi da Germania e Francia, Paesi cui amiamo confrontarci quanto a modello economico, in testa con il 9,5% e il 9,3%, nonché da altri Paesi nordici. Superavamo di poco la Spagna, che spendeva il 6,2%, e tutti i Paesi dell’Est. Di per sé non è una statistica particolarmente scandalosa, rispecchia abbastanza fedelmente quella del livello di reddito e benessere in Europa.
Forse è proprio questo il problema. Il declino italiano si è riverberato sulla spesa per la salute, basta guardare il trend. Fino al 2009 era stato in salita, con sempre più risorse dedicate alla sanità, anche in rapporto al Pil. Si era arrivati al 7%, diminuendo anche la distanza da Germania e Francia. Dopo di allora vi è stato un lento calo, continuato anche con la piccola ripresa dell’economia, un calo parallelo a quello spagnolo, ma in controtendenza a quanto accadeva altrove, per esempio nel Regno Unito.
L’Italia fa parte di quella minoranza di Paesi europei in cui in 10 anni la spesa in percentuale sul Pil è diminuita, assieme a Grecia, Portogallo e Irlanda, gli Stati più colpiti dalla Grande Recessione del 2008, e a Polonia e Ungheria, dove invece la crescita c’è stata, ma così forte che la sanità non ha tenuto il passo. I Paesi Scandinavi, Francia e Germania e in generale l’Europa Centrale e Settentrionale hanno invece adeguato la propria sanità all’aumento della proporzione di anziani. La Grande Recessione non può però valere come alibi in assoluto. Non solo perché la spesa sul Pil non è risalita con la ripresa ma soprattutto perché anche nel periodo precedente, tra 1990 e 2008, non abbiamo affatto brillato, con un aumento dello stesso indicatore solo del 0,9% un incremento ancora tra i più bassi d’Europa, mentre più di metà degli altri Paesi vedeva crescite della spesa sul Pil doppie o triple della nostra.
L’attenzione alla sanità era forse venuta meno già dai primi anni ‘90, in occasione del risanamento dei conti dopo la crisi del 1992, data alla quale dovremmo probabilmente spostate l’inizio del lunghissimo declino italiano. La spesa sanitaria però non è solo quella del governo. Pur essendo lontanissimi dal modello americano, anche in Italia vi è chi spende in assicurazioni private e soprattutto per prestazioni cosiddette out of pocket, non coperte dal sistema sanitario nazionale o da altri schemi anche privati. Nel 2018 queste ultime hanno costituito il 23,1% della spesa pro-capite degli italiani (ovvero 590,9 euro) più che negli altri grandi Paesi europei. Solo in Lituania, Portogallo Austria ci hanno superato in questa statistica.
In 10 anni la spesa out of pocket degli italiani è aumentata del 16,6%, in contrasto con la crescita del 3% di quella pubblica. In Svezia Austria e Polonia, c’è stato un incremento, anche superiore, di questi esborsi delle famiglie, ma solo nel caso italiano abbiamo un rapporto di 1 a 5 e più tra i due tipi di aumento. Basti pensare che in Germania a fronte di un +25,6% nella spesa out of pocket vi è stata una +59,9% di quella pubblica. Vuol dire che se in altri Paesi è indice di una crescita dei redditi, soprattutto della sempre maggiore porzione di consumatori anziani, nel nostro Paese possiamo anche parlare di una supplenza, da parte delle famiglie, alle carenze del pubblico con il proprio portafoglio.
L’impatto finale di questi trend riguarda la presenza di un numero adeguato di letti e di personale ospedaliero nelle strutture sanitarie del nostro Paese. Nel 2017 vi erano 318 letti ogni 100.000 abitanti in Italia, meno che in Germania, dove si arrivava a 800, in Francia, e in gran parte dell’Europa Centro-Orientale, anche se superavamo Regno Unito, Spagna, Svezia. Eravamo indietro anche nella statistica sugli occupati negli ospedali, che erano 1.033 ogni 100.000 abitanti, il 60% in meno che in Germania, quasi la metà che in Francia e nel Regno Unito.
Con il tempo si è trovato il modo di curare farmacologicamente e prevenire molte patologie senza ricorrere al ricovero, e si è diminuito il tempo necessario per il recupero post-operatorio. Infarti, ictus e incidenti stradali si sono ridotti negli ultimi 30 anni, è fisiologico un minor ricorso al letto d’ospedale, ma perché in Italia sono stati tagliati più posti che altrove? E perché a fronte di una sostanziale stabilità nel numero di lavoratori negli ospedali solo in Italia, dove già sono meno della media, sono calati, seppur di poco?
Il destino della sanità di un Paese è legato strettamente alla sua capacità di crescere e nel caso in cui non ce la faccia di saper scegliere cosa sacrificare. Facile dire che la salute viene prima di tutto, anche prima dell’economia, ma nella pratica gli ultimi decenni dimostrano che i Paesi che hanno potuto incrementare l’attenzione alla sanità sono stati quelli che subito meno le varie crisi e sono cresciuti di più. I responsabili del declino italiano sono quindi anche i responsabili delle carenze sanitarie. Non hanno saputo dare la priorità alla sanità e resistere di fronte alle pretese di un elettorato che come sempre pretendeva un tipo di spesa più visibile e remunerativa nelle urne, la solita, in pensioni, bonus, sussidi vari. Che il coronavirus possa cambiare il paradigma è tutto da dimostrare.