I metalmeccanici annunciano mobilitazioni e scioperi a oltranza, da Nord a Sud, fino al 29 marzo. Nella stessa direzione si muovono i chimici e i bancari. E ulteriori fabbriche si uniranno alla protesta, oltre quelli che già ieri hanno incrociato le braccia, se dal governo non ridurranno la lista degli 80 settori produttivi che potranno restare aperti anche dopo l’entrata in vigore del decreto Chiudi Italia. «Solo attività essenziali o sarà mobilitazione fino allo sciopero generale», annunciano Cgil, Cisl e Uil.
A far detonare, in piena emergenza coronavirus, la pace tra sindacati e Confindustria è stato il caos del Governo su un decreto che, a sentire l’annuncio notturno di sabato del premier Giuseppe Conte, avrebbe dovuto chiudere tutte le attività non essenziali. E che alla fine, invece, è stato molto meno restrittivo del previsto. E così la lista dei siti che dovrebbero continuare a lavorare nell’emergenza è ben più lunga rispetto a quella concordata dalle parti sociali. Ottanta voci che vanno oltre l’elenco ristretto ai settori sanitario, attività agroalimentari, trasporti, servizi essenziali, farmaceutica e telecomunicazioni, presentato poche ore prima. Una correzione, accusano i sindacati, arrivata domenica dopo che il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia ha inviato una lettera al presidente del Consiglio Giuseppe Conte in cui ha chiesto di far proseguire le attività «non espressamente incluse nella lista e che siano però funzionali», oltre che quelle che non possono essere interrotte per ragioni tecniche.
Dal Governo negano di aver ceduto alle pressioni di Confindustria, intenzionata a difendere la produzione. Ma, fanno notare da Cgil, nel testo pubblicato «compaiono fabbricazioni che difficilmente possono essere considerate essenziali in questo momento, come la produzione di trattori o taglia-erbe e addirittura il commercio all’ingrosso». Un decreto «stravolto. Basta furbizie», ha tuonato il segretario Maurizio Landini. E dopo l’invio di una lettera all’esecutivo con la richiesta di un incontro «urgente» da parte di Cgil, Cisl e Uil, i ministri dello Sviluppo economico e dell’economia Stefano Patuanelli e Roberto Gualtieri hanno convocato per questa mattina una videoconferenza con le parti sociali, probabilmente per rimettere mano alla lista degli stabilimenti aperti, prima che giovedì il decreto entri in vigore per tutti.
L’appello al Governo a mantenere aperto il confronto con i sindacati è arrivato anche dal Partito democratico. Il vicesegretario dem, Andrea Orlando, ha ammesso che Palazzo Chigi probabilmente ha esagerato con i servizi ritenuti essenziali: «Se ci si è allargati oltre si può correggere il decreto, non possiamo che muoverci per approssimazioni». Il testo, ora, può essere modificato con decreto del ministero dello Sviluppo economico, sentito il ministero dell’Economia. Un punto dirimente sarà distinguere tra settori e singole attività, come i sindacati avevano chiesto. Aprire interi settori porterebbe inevitabilmente a un allargamento delle produzioni aperte. Considerando solo i dipendenti, secondo una stima della Fondazione Di Vittorio, i lavoratori considerati «essenziali» dal dpcm del 22 marzo sarebbero infatti ben 12 milioni.
Ma, oltre alla lunga lista, a preoccupare i sindacati è anche il comma d) all’articolo 1 del decreto, che «ha assegnato alle imprese una inaccettabile discrezionalità per continuare le loro attività con una semplice dichiarazione alle prefetture», dice Michele De Palma, della segreteria nazionale della Fiom Cgil. In questa parte del dpcm si stabilisce che «restano aperte le attività che sono funzionali ad assicurare la continuità delle filiere di cui all’allegati 1 (la lista, ndr) previa comunicazione al prefetto della provincia dove è ubicata l’attività produttiva». E «fino all’adozione dei provvedimenti di sospensione delle attività, essa è legittimamente esercitata sulla base della comunicazione resa». Qualsiasi azienda, in pratica, può autocertificare, con una semplice comunicazione al prefetto, di far parte della filiera di una delle attività rimaste aperte. Finché la prefettura non risponde, le aziende possono così aggirare legalmente l’obbligo di chiusura. Alla prefettura, secondo il comma g), spetta pure di valutare l’attività degli impianti a ciclo produttivo continuo. Anche in questo caso basterà una comunicazione da parte dell’impresa. E finché non ci sarà un intervento del prefetto si andrà avanti.
Una misura che non è piaciuta neanche alle opposizioni. «Il caos che ha accompagnato l’introduzione dell’ultimo decreto ha lasciato insoddisfatti sia i rappresentanti delle imprese sia quelli dei lavoratori», spiega la deputata di Forza Italia Mara Carfagna. «Si scarica su di loro e sui prefetti la decisione di proseguire o meno le attività, di decidere cosa è essenziale o no, sulla base di un decreto che appare ambiguo e generico. Il governo non può eludere le proprie responsabilità: il rischio è una conflittualità tra parti sociali che in questo delicato momento va assolutamente evitata. Occorre rendere chiaro chi può lavorare e chi no, a quali condizioni e sulla base di quali controlli. Le imprese che hanno introdotto le misure di protezione necessarie per tempo hanno diritto a continuare la loro attività, mentre le aziende poco sicure per la salute dei dipendenti e per il rischio contagio, vanno chiuse». Insoddisfatto anche il governatore della Lombardia Attilio Fontana: «Non sono particolarmente contento del decreto del governo, perché va a creare degli spazi che noi avevamo cercato di coprire».
Ieri intanto sono già scattati gli scioperi in diverse aziende del settore aerospazio. Da Leonardo a Ge Avio, Fata Logistic System, Lgs, Vitrociset e altri. «Non sono indispensabili le attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa», ha commentato la leader della Fiom, Francesca Re David. Oggi continua lo stop delle tute blu in Emilia Romagna e Toscana, mercoledì è previsto in Lombardia e Lazio. Pronti a scioperare già da oggi anche i bancari. «I dipendenti del settore, tra i quali si registrano molti casi di positività al coronavirus, non operano in condizioni di sicurezza», scrivono i sindacati in una lettera indirizzata ad Abi e Federcasse. E dopo il varo della terza maxi trave, i sindacati ora chiedono anche di riflettere sulla possibilità di fermare il cantiere del nuovo viadotto autostradale di Genova, anche se rientra tra le opere strategiche.