The chosen oneEcco perché LeBron James è il più grande giocatore dell’Nba (e non la promessa Zion Williamson)

Le due superstar di Lakers e Pelicans sono il presente e il futuro del basket americano. Sono simili per gioco e prestanza fisica ma il 23 rimane il leader assoluto

Il presente contro il futuro. Due stelle del firmamento Nba, due giocatori così simili da respingersi. Domenica notte i Lakers hanno battuto per 122 a 114 i New Orleans Pelicans anche se si giocava in Lousiana. Il match è stato spettacolare e combattuto fino all’ultimo, nonostante l’assenza pesante di Anthony Davis, tenuto a riposo con un ginocchio dolorante dopo aver giocato a Memphis la sera prima. Sul parquet dello Smoothie King Center c’è stata però una partita nella partita, la più attesa e chiacchierata della Western Conference, quella tra The King e l’enfant prodige Zion Williamson, il primo 35 anni da poco compiuti, il secondo 20 ancora da fare. Per LeBron parlano i numeri: 34 punti, 12 rimbalzi e 13 assist, l’ennesima tripla doppia della sua eccellente stagione e la leadership necessaria per chiudere la partita ed evitare il secondo ko consecutivo. Williamson invece firma il suo massimo in carriera toccando quota 35 punti (di cui 17 nel solo primo quarto contro i 19 di James).

Ma non finisce qui: il rookie di New Orleans e la stella dei Lakers, forse a loro insaputa, nel corso di questa stagione e durante la gara di domenica, sono gli artefici di uno spaccato senza eguali del basket: rispetto e atletismo oggi, figlio della mentalità americana orientata allo spettacolo domani. Un passaggio che spiega inoltre l’incompatibilità tra i due giocatori, molto spesso paragonati per caratteristiche e carriera, che al momento non vogliono sentir parlare di eredità o testimone da cedere.

Le due superstar vivono in modo contrastante il rapporto con l’altro. LeBron James cerca un punto di contatto con la prima scelta assoluta all’ultimo draft, mentre Zion si ostina a ritardare il duro confronto con un’eredità così ingombrante. «Non l’ho mai incontrato. Mai. Mai avuta una conversazione assieme. Mai incontrato prima» ha commentato James a fine partita. Eppure, le occasioni non sono certo mancate. L’anno scorso LeBron si è perfino scomodato per andare a vedere a bordo campo una partita dei Duke Blue Devils di Zion, impegnati sul campo di Virginia. Poi i due si sono ritrovati assieme anche al recente All-Star Weekend di Chicago, così come hanno finalmente incrociato le armi nella gara andata in scena il 25 febbraio a Los Angeles.

Un blocco ostile sia fuori sia dentro i palazzetti (salvo l’abbraccio di rito di domenica), che trova definizione anche nella diversa filosofia d’approccio al campo. Per intenderci: l’Nba, ma più in generale lo sport intero, ha ancora tanto bisogno di LeBron James. Dopo la tragedia di Kobe Bryant, infatti, The King è forse l’ultima fotografia sbiadita di un basket che fu: romantico e gerarchico allo stesso tempo, dove a un fallo flagrant seguiva una stretta di mano, dove il gioco era lo stesso del campetto e botte e consigli si accettavano allo stesso modo da compagni come da avversari.

È vero, oggi come ieri l’Nba risponde alla legge del business, e niente ispira i giocatori più dei 7 miliardi di dollari che girano solo dietro al campionato americano. Ma è altrettanto vero che il concetto cardine, come sottolinea Johan Huizinga nel suo saggio “Homo ludens”, deve sempre fare i conti con una sfera ludica, in grado di irretire le nuove generazioni in uno sport pulito e di immagine. Quella che al momento veste LeBron James e che in un futuro non troppo remoto spetterà a Zion. Il giocatore più giovane di sempre a segnare almeno 20 punti per dieci gare in fila da rookie,. Williams ha rifiutato i servizi di Rich Paul, l’agente del 23 gialloviola, che lo avrebbe reso un altro “pupillo” della scuderia James al pari di Anthony Davis e ancor di più Ben Simmons, che ha detto no a un contratto di sponsorizzazione con Nike preferendo Jordan Brand (almeno negli Stati Uniti la rivale diretta per quote di mercato). Zion è anche il diciannovenne più pagato della storia dei rookie: 44 milioni di dollari in quattro anni, di cui 9,7 nel primo e ha scelto fin da subito, nel bene e nel male, di scrivere una nuova pagina del basket, fatta di individualismo e tracotanza.

Caratteristiche sacrosante, che lo differenziano per di più dalle altre giovani star Nba, da Jayson Tatum a Ja Morant, oltre che da LeBron. Il quale, nel profondo, ha da sempre cercato un obiettivo finale diverso per la sua favola. Dall’infanzia dura, alla carriera sotto i riflettori fin dal liceo, LeBron ha sempre trascinato il mondo del basket americano – rendendolo umano e fallibile e disegnando così i tratti di un sogno, quello dello sportivo, che non si arrende di fronte a niente -, grazie alla sua capacità di risollevarsi in qualsiasi occasione: in procinto di essere un grande-perdente, il Re ha vinto a Miami (2012-2013), è tornato e ha vinto a Cleveland (2016) la finale più incredibile degli ultimi vent’anni, ha un’associazione benefica con la quale permette da anni a tantissimi bambini delle zone povere di Cleveland e di Akron di andare al college gratuitamente. James, a differenza di altre superstar del passato o di oggi, non è un accentratore (mentre di Zion, per la legge dello spettacolo di cui sopra, non saremmo qui a parlarne se non fosse per le sue schiacciate e il suo gioco da solista virtuoso alla Vince Carter).

E a chi lo accusa di essersi troppo «rammollito» ed essere diventato alleato e amico di giocatori che dovrebbero essere in realtà avversari, il Re ha elegantemente risposto «ditegli che possono baciarmi il c**o. Con il sorriso. È una mia responsabilità, nessuno mi ha detto di farlo. Sento che è una mia responsabilità lasciare questo gioco in uno stato migliore di come l’ho trovato». Una responsabilità che ogni sportivo dovrebbe condividere e far sua. Una responsabilità che lo ha reso il miglior atleta dell’ultimo decennio, un modello da seguire e non certo da snobbare.