In un girone infernale, quello degli iracondi e degli accidiosi, proprio il Diavolo si è perso. Il Milan, quello che il mondo sportivo conosce, non c’è più, nonostante un semidio di nome Zlatan Ibrahimović, per un attimo, abbia riacceso la speranza. In casa dei rossoneri va in scena l’ennesima crisi del dopo Berlusconi, e a rimetterci le penne questa volta sono Zvonimir Boban e (con molte probabilità) Paolo Maldini. Le stesse bandiere iconiche richiamate per rendere di nuovo grande la società, fuori e dentro il campo, si ritrovano degli estranei in casa propria – anche se al momento manca ancora l’ufficialità dello strappo.
L’avventura alla guida dell’area tecnica di Zvone è durata soli otto mesi, incomparabile a quella vissuta da ragazzo, quando con il Milan l’ex centrocampista croato ha conquistato quattro scudetti e una Coppa dei Campioni tra il 1992 e il 2001. La rottura del resto era nell’aria: tra il chief football officer e l’amministratore delegato Ivan Gazidis non era mai corso buon sangue, sin dalle prime decisioni in merito alla politica di rafforzamento del club. Il detonatore di tutti gli attriti latenti è stato premuto da Boban che nella recente intervista alla Gazzetta dello sport, ha giudicato «inelegante e destabilizzante» l’invasione di campo di Gazidis, messosi in contatto da tempo con Ralf Rangnick per allenare il Milan il prossimo anno.
Non sbaglia Bobo Vieri quando dice che «Boban non è un pupazzo come tanti» e che Gazidis di certo non si è comportato lealmente. Il destino del croato sembra già indirizzato di nuovo verso la Fifa, dove non è mai stato sostituito da Infantino, al contrario di quello dell’ex capitano rossonero che rimane un tabù. Ebbene sì, quel numero 3 tanto amato e rispettato è vittima adesso di una storia da terza categoria infima e piena si sottintesi. Perché allo stato attuale così è visto uno dei tre club più titolati al mondo: un coacervo di business man, portatori di un stile aziendale senza volto, estraneo al calcio milanista, ai giocatori stessi e alla Serie A intera.
Per capire la parabola discendente del Milan bisogna fare un passo indietro e partire dallo scalino principale, quello economico. La società nel 2019 ha perso 146 milioni, facendo registrare il peggior rosso della propria storia. Un bilancio che porta con sé i pesi del passato e di un closing societario mai del tutto assorbito: prima alla Rossoneri Sport Investment Lux, società lussemburghese che fa capo dall’imprenditore cinese Li Yonghong, nel 2018 alla Elliott Management Corporation, che acquista il club ed elegge presidente Paolo Scaroni, e infine la rinuncia all’Europa League a causa delle violazioni delle norme del fair play finanziario sono la cartella clinica di un progetto mai decollato.
Dietro alla perdita record si sono ammucchiati fattori come la flessione dei ricavi, l’aumento significativo del costo del personale, gli stadi vuoti e l’allontanamento in senso lato di tifosi e sponsor. Il tutto aggravato da un modello imprenditoriale che ha cambiato strategia nel giro di dodici mesi, il tempo di affidare la direzione tecnica del club a Leonardo, mettendo a disposizione dell’attuale dirigente del PSG un budget importante sia nella sessione estiva sia in quella invernale del mercato e combattendo sull’altro fronte per le sanzioni Uefa sul fair play finanziario, per poi in breve tempo rinnegare il tutto e ribaltare completamente il disegno sportivo. Confusi? È normale, la società rossonera è una busta di plastica spazzata dal vento, prima promotrice di operazioni strutturali e dopo di colpi a buon mercato, mimetizzati con il gergo «puntare sui giovani».
È anche vero, però, che il caos della visione dirigenziale potrebbe, almeno sul fronte dei costi, attenuare gli effetti economici dovuti in gran parte dal minore appeal commerciale del Milan, ovviamente con un ritocco sulla rosa del prossimo anno in linea con la spending review intrapresa. E qui scatta il cortocircuito. L’aumento dei costi ascritto alla significativa crescita del costo della rosa, a seguito anche del passaggio temporaneo di giocatori dall’ingaggio pesante come Higuain o Bakayoko, cozza con la pulizia di bilancio in atto e allo stesso tempo con la filosofia di costruire una squadra su giovani promettenti a buon mercato (che per chi non se ne fosse accorto costano comunque caro). Pertanto, Romagnoli, Donnarumma e, anche se non più giovane, Ibrahimović dovranno abbassarsi lo stipendio o fare le valigie, il che può inficiare non solo sul morale degli atleti ma, di nuovo, sulla reputazione del club.
La Juve, il Liverpool, da quest’anno l’Inter, sono diventati competitivi seguendo una tattica basilare: più soldi significa migliori allenatori, migliori allenatori significa giocatori di prima scelta, giocatori di prima scelta significa più spettacolo, più spettacolo significa più biglietti, diritti Tv alle stelle e maggiore disponibilità finanziaria (il che ci riporta all’inizio). Il Milan al momento non è iscritto a nessuna di queste categorie e, il gioco e l’aria che si respira a Milanello ne sono la prova, per questo si ritrova a rattoppare come meglio può la rosa, assumere traghettatori, arruolare giocatori sì giovani ma di medio-basso livello al quale alterna ottime promesse che, a quanto pare, però non può permettersi. E così la giostra continua a girare, ora per Marco Giampaolo, ora per Boban, ora per Maldini. Con un solo e unico responsabile originale: Silvio Berlusconi.
Proprio così, il Cavaliere. L’analisi di Diego Abatantuono può aiutare a capire: «Il Milan è l’unica squadra di Serie A che non ha un presidente. Ha un fondo, che non può che fare i propri interessi». Il Diavolo è un club pericolosamente venato, alle prese, come Forza Italia ed elettori, con il vuoto lasciato dall’ex premier. E tanto per gli azzurri quanto per i rossoneri, il futuro è diventato frenetico e instabile, orfano di quella linfa dell’allora patron riassumibile con una frase scambiata a Papa Giovanni Paolo II: «Santità, mi lasci dire che lei assomiglia un po’ al mio Milan: tutti e due andiamo spesso in trasferta a portare nel mondo un’idea vincente».