Una nuova stagione di nomine al vertice delle società pubbliche è oggi al suo apice in Italia. Come si dovrebbe davvero procedere per scegliere i nomi giusti? Per dare un senso alle nomine, si dovrebbe andare sempre di più oltre la singola persona e si dovrebbe tenere ben presente il ruolo di guida che il consiglio di amministrazione nel suo insieme e nell’espletamento completo delle proprie funzioni dovrebbe avere.
A giorni, ormai, dovranno essere proposte le nomine per oltre 300 ruoli chiave, di governo e di indirizzo, di aziende strategiche non solo per il Paese, ma anche per le borse mondiali, per il vasto pubblico dei risparmiatori, dai singoli, ai grandi fondi pensione mondiali. Solo agli speculatori interessa il breve periodo. Tutto il resto ha un obiettivo di lungo periodo: dalla salvaguardia dei risparmi, alle singole pensioni mensili che vengono pagate a chi ha lavorato per anni. Fra questi ci sono finanche i vigili del fuoco dell’Oklahoma o gli insegnanti del Texas, che anche se magari non sono mai stati in Italia, sono investitori fondamentali per le nostre società.
Eni, Enel, Leonardo, Poste Italiane. Insieme fanno oltre 140 miliardi di valore. Non possono essere gestiti in un’ottica di breve periodo, come la nostra politica, purtroppo, ci sta abituando sempre di più a fare.
Le logiche con cui vengono fatte le nomine, almeno nelle principali organizzazioni, quelle strategiche per la nazione, restano definite da criteri politici, non meritocratici né tantomeno basati sulle reali competenze dei prescelti. Questo non vuol dire necessariamente che chi viene scelto non sia competente in assoluto (a parte qualche frequente eccezione). Il problema è che il consiglio di amministrazione non viene costruito sulle competenze dovute e con la necessaria attenzione a una composizione che possa funzionare nel suo insieme, al di la delle singole individualità. Succede cosi, troppo spesso, che ci troviamo con persone intelligenti, a volte persino eccellenti nelle loro verticalità, ma incompatibili nelle loro espressioni valoriali e culturali. Quando si siedono allo stesso tavolo, oltre che essere lontane per interessi rappresentati, non hanno gli strumenti più elementari di mediazione, conciliazione e presa di decisione efficace.
Paradossalmente, la corporate governance italiana, o per lo meno i manuali di corporate governance delle società italiane, sono tra i più all’avanguardia, la disclosure sui funzionamenti dei consigli di amministrazione delle società italiane è massima. La qualità garantita sulla carta si spera permanga anche nella pratica.
Il 30 settembre 2018 è stata votata una legge che in ogni società pubblica almeno una donna venga nominata nel consiglio di amministrazione. No, non stiamo parlando di un altro pianeta. È successo in California. Qui da noi, in Italia, una prima rivoluzione l’abbiamo fatta nove anni fa con la legge Golfo-Mosca e i suoi risultati si possono leggere in vari modi. Ha portato più donne nei cda? Obiettivamente sì. Ha portato maggiore competenza nei cda? Nella maggior parte dei casi sì. Ha raggiunto l’obiettivo di scalfire la cultura di cui sopra ? Assolutamente no. La diversità si è espressa in una maggiore rappresentanza delle minoranze da un punto di vista formale, ma, dal punto di vista sostanziale, la cultura dominante non si è lasciata contagiare.
L’ultima relazione sulla corporate governance di Consob ci offre uno spaccato incoraggiante per quanto riguarda proprio il discorso “diversity” nella composizione delle società italiane quotate in Borsa. A giugno 2018, la presenza femminile aveva raggiunto il 36% del totale degli incarichi di amministrazione e il 38% degli incarichi di componente degli organi di controllo. In entrambi i casi, si sono registrati i massimi storici per effetto dell’applicazione della legge Golfo-Mosca. Sempre nel documento della Consob del 2018, c’è un ulteriore elemento di riflessione e di augurio: alla maggiore partecipazione femminile si associano una riduzione dell’età media dei consiglieri, un aumento del numero di laureati e una maggiore diversificazione dei profili professionali. Board più giovani possono solo far sperare che si introduca una visione di lungo periodo, nonostante la cieca fiducia di alcuni personaggi nella propria immortalità. Board più giovani tenderanno inevitabilmente a guardare al futuro.
Last but not least, ora si dovrebbe andare verso l’aumento di competenze, forse in controtendenza rispetto alla realtà della classe politica attuale. È dentro alle organizzazioni, invece, che la “diversity” non è mai decollata, almeno non ai livelli più alti.
Si dirà che la strada è lunga e siamo solo all’inizio. Si dirà che questa insoddisfazione amara non aiuta le minoranze. Si può rispondere che non c’è più tempo per la condiscendenza che in questo Paese ha portato a governare chi non è formato per farlo, a sedere in organismi di governance chi non ha ancora capito a cosa serve un consiglio di amministrazione e ha votato all’unanimità azioni scellerate di distruzione di valore che pagheranno come al solito i prossimi che arriveranno. I ricchi emolumenti dei pavidi vanno intanto ad ingrassare i loro conti correnti, mentre si licenziano per l’ennesima volta quelli che di privilegi non ne hanno.
Nel settore privato, uno dei più vistosi effetti della crisi Lehman in Italia è stato lo smantellamento di quella che universalmente era riconosciuta come Italian tangled web : l’insieme di incroci di partecipazioni, ma soprattutto di sedie, nei consigli di amministrazione. Il mercato da una parte, forzando le banche a liberare risorse di capitale spesso “impantanate” in partecipazioni incrociate più per creare barriere che per creare valore, e dall’altra la legge, con il divieto di nomina nei consigli di amministrazione di più di una istituzione finanziaria, hanno posto le basi per la creazione di un “casus” virtuoso di come, ascoltando il mercato, la “cosa pubblica” riesce a guardare al futuro delle aziende. In Italia si è iniziato a parlare in inglese nelle sale dei consigli di amministrazione, sono iniziati ad arrivare figure internazionali che hanno portato valore con la loro esperienza, ben al di là della gender diversity.
Lo stesso processo si auspica possa iniziare ora anche nelle nomine delle società pubbliche, dove le proporzioni non siano concepite solo per il colore politico ma per le competenze. La legge Golfo-Mosca verrà prorogata. Mi auguro un suo utilizzo più accorto ed efficace, così come era nello spirito di chi ne porta il nome. Speriamo che le future nomine vengano fatte, almeno per una quota parte, con attenzione all’insieme, al futuro, alla sostenibilità e al coraggio che ogni consigliere di amministrazione degno di questo nome deve avere per svolgere degnamente il suo ruolo.
Ci sono stati anche altri esempi più o meno virtuosi di cambiamento nel processo di corporate governance, sia per quanto riguarda la definizione delle liste, strumento democratico forse unico in Europa, sia nell’ambito di definizione dei consigli di amministrazione, che sicuramente possono fornire interessanti spunti.
Mi riferisco all’adozione della lista proposta dal board, ancora un “unico” in Italia ma che ha subito destato curiostià e attenzione da parte di diversi altri board: un esperimento che va verso la via anglosassone di definizione dei consigli di amministrazione, forse un po’ troppo sbilanciato. Difficilmente, infatti, il board che dovrà proporre la propria lista riuscirà a liberarsi da ogni conflitto d’interesse nel processo di valutazione del proprio operato. Certamente, però, l’introduzione della lista proposta dal board ha il vantaggio di eliminare le influenze politiche che permettono, in altri casi, agli azionisti di minoranza dentro una lista di maggioranza di fare il bello e il cattivo tempo all’interno del board e allo stesso tempo rendono lo stesso amministratore delegato sempre in balia delle “simpatie” di pochi. L’introduzione però tout court di una lista del board rischia di far sì che lo stesso amministratore delegato abbia un ruolo di “deus ex machina” che non va certo verso l’esigenza di un organo di governance collegiale e di indirizzo, non di ratifica. Il rischio è che di nuovo tutti gli sforzi si concentrino su un’unica persona e non sulla collegialità delle competenze del board.
I numeri possono essere incoraggianti, auguriamoci che il trend generale non segua il percorso di “decrescita felice” del Paese.
Per quanto riguarda le nomine delle aziende partecipate, un ulteriore elemento che lascia sperare un po’ di lungimiranza viene dal recente Green New Deal approvato dal governo. Si tratta di un piano industriale a lungo periodo che potrà essere declinato nella politica industriale delle aziende partecipate e che indubbiamente vedrà il sostegno e l’appoggio anche dei grandi investitori. Il caso Blackrock e la recente lettera del suo ceo Larry Fink non possono che andare in questa direzione. Siamo di fronte ad una strategia industriale che non dovrà essere rappresentata da una singola persona, ma da tutti gli organi di indirizzo e guida delle società.
Mi auguro, soprattutto, che i leader di valore che vediamo seduti qua e là nelle varie aziende riescano ad affermare l’urgenza di un ciclo di nomine davvero capace di innestare un cambio di marcia e ad uscire dall’isolamento, a volte compiacente, che fa di loro delle mosche bianche, anziché dei protagonisti di sistema.