Valentina Tereshkova era già entrata nella storia come la prima donna nello spazio. Ma, a 83 anni appena compiuti, ha deciso di iscrivere il suo nome negli annali per la seconda volta. La cosmonauta-deputata ha proposto a sorpresa alla Duma di votare un emendamento alla Costituzione che azzera il contatore delle presidenze (quattro, per chi avesse perso il conto) di Vladimir Putin. Apparentemente, una delle tante proposte nel dibattito sulle modifiche alla Costituzione lanciato dal Cremlino, che dovrebbe culminare nel referendum del 22 aprile. Ce ne sono state una valanga, di ogni genere e livello di bizzarria, ma la mozione di Tereshkova stranamente ha indotto i parlamentari a sospendere i lavori per un’ora e mezza. Contemporaneamente un altro deputato più noto per altri meriti, la montagna d’uomo del lottatore e portabandiera olimpionico Aleksandr Karelin, ha proposto le elezioni parlamentari anticipate dopo il referendum.
Un colpo di scena, passato all’inizio abbastanza inosservato: la mente dei russi è impegnata dal crollo del rublo, che ha perso in 24 ore quasi il 25%. Agli sportelli dei cambi si sono formate code di persone ansiose di salvare i loro risparmi convertendoli in dollari ed euro, qualcuno correva nei negozi ad acquistare merci di importazione prima che aumentassero di prezzo. Nell’aria si respirava l’ormai familiare odore di crisi economica: il prezzo del petrolio è sceso a picco, e in Russia dal costo del barile dipende tutto, i salari, le pensioni, i prezzi, il welfare, gli armamenti, perfino le mazzette. Solo che stavolta a farlo cadere non è stata una crisi o una guerra, ma il governo russo: pochi giorni prima Mosca si è rifiutata di aderire alla proposta del cartello Opec+ di ridurre la produzione del greggio per tenere in alto il prezzo, e ha anzi deciso di incrementare la produzione. In rappresaglia, l’Arabia Saudita ha aperto i rubinetti, e il panico da coronavirus ha fatto il resto.
Martedì i mercati russi hanno riaperto in forte ribasso, e il presidente si è presentato alla Duma, ma non per parlare dell’emergenza economica. Ha fatto ai deputati un discorso sulla necessità di conservare un presidenzialismo forte – «Esiste la democrazia parlamentare, un giorno il potere sarà meno personalizzato, ma per ora non fa per noi» – e ha stabilito che gli piace la mozione di Tereshkova, mentre boccia la mozione Karelin. I deputati hanno compreso perfettamente il messaggio e, in cambio di poter conservare le poltrone fino alla fine della legislatura hanno prontamente concesso al presidente attuale di potersi ricandidare alle elezioni del 2024 come se non avesse alle spalle già 20 anni di governo. Potenzialmente per altri 12 anni, visto che, dopo essersi ricostruito la verginità del mandato zero, Putin si è detto democraticamente contrario ad abolire il limite di due mandati presidenziali consecutivi.
Un’operazione rapida e pulita, come voleva la celebre cosmonauta: «Perché dobbiamo inventarci giri complicati?», ha chiesto all’aula l’ex tessitrice catapultata nello spazio dagli spin-doctor di Krusciov. In effetti, dopo due mesi di dibattito sulla riforma costituzionale, si è capito piuttosto bene che tipo di Russia vuole Putin: tra gli emendamenti approvati, l’ingresso di Dio nella Costituzione, l’affermazione che il matrimonio può essere contratto solo tra un uomo e una donna, la proclamazione della lingua e della cultura russa come «Stato-formativa» a scapito della società multietnica e la proibizione a mettere in discussione la versione ufficiale della vittoria nella Seconda guerra mondiale, e altre delizie sovranisto-imperiali. Ma non si era ancora capito come questa manovra avrebbe risolto il problema-2024, il problema dell’impossibilità giuridica di rieleggere Putin.
Gli ottimisti ipotizzavano una transizione di potere soft verso un gruppo di giovani tecnocrati moderati, i pessimisti una soluzione “asiatica”, con lo spostamento di Putin nella poltrona del Consiglio di Stato, una sorta di padre della patria sul modello del collega del Kazakistan Nursultan Nazarbaev. Ma alla fine si è preferito evitare “giri complicati”. Putin non ci tiene più a salvare la faccia di “democratico” di fronte all’Occidente, e ora che Donald Trump gli ha fatto sapere che non verrà nemmeno alla parata per l’anniversario della vittoria sul nazismo a maggio – e il Cremlino giudica amici e nemici in base alla lista degli invitati a questo appuntamento – fingere è definitivamente inutile. Soprattutto per uno che la settimana scorsa aveva già confessato che per lui la presidenza «Non è un lavoro, è un destino», e sostenuto che «per la Russia l’alternanza di potere è ancora un lusso».
Ora Putin potrà farsi eleggere fino al 2036, anno in cui compirà 83 anni, di cui 37 al governo. Il capo della Duma Viacheslav Volodin – l’uomo che qualche anno fa aveva coniato la formula «Senza Putin non ci sarà più la Russia» – elogia la «stabilità» promessa dalla decisione sul presidente eterno. Il golpe costituzionale cancella la Russia dalla lista delle democrazie, perfino quelle “illiberali” o “ibride”. E la rende definitivamente una scheggia impazzita, un loose cannon il cannone slegato che rotola pericolosamente sul ponte della nave. Il tavolo ribaltato dell’Opec è solo un primo assaggio. I commentatori vicini al Cremlino parlano di una «mossa strategica da grande potenza» per abbassare i prezzi del greggio e uccidere così il settore dello shale oil americano.
I petrolieri parlano di un errore colossale, che attribuiscono a Igor Sechin, presidente di Rosneft, la major statale del petrolio, braccio destro di Putin e falco dei falchi del Cremlino, convinto sostenitore dell’incremento della produzione a oltranza, per piegare gli odiati americani e soprattutto per far quadrare i conti traballanti del suo impero. Sfidare al gioco al ribasso l’Arabia Saudita, con il suo barile letteralmente senza fondo, è una follia, mentre il danno al settore petrolifero americano, molto elastico, potrebbe rivelarsi relativamente contenuto. Ma il bilancio pubblico russo va in tilt più o meno intorno ai 40 dollari a barile. Il rublo torna a precipitare, mentre i prezzi di tutti i beni importati (tantissimi) e di molti beni esportabili torna a salire. In compenso, la svalutazione della moneta nazionale permette di aumentare (sulla carta) i profitti di Rosneft e anche le entrate petrolifere dello Stato, pagando pensioni e sussidi con rubli che pesano un quarto in meno. Questa non è una ricetta da grande potenza, è un biglietto per il Venezuela, molto prima del 2036.