Il Conte del NazarenoIl Pd non c’è più, ormai è a vocazione contiana

Addomesticando i democratici, l’avvocato del popolo compie forse il suo capolavoro politico, ancor più della sterilizzazione grillina. Il Nazareno chiuso per ovvie ragioni è la metafora di un partito che si è autosospeso, nella migliore delle ipotesi per senso di responsabilità

VINCENZO PINTO, ALBERTO PIZZOLI / AFP

«Noi siamo con Conte. Senza se e senza ma», è il tweet dei deputati del Pd che rilancia una dichiarazione di Nicola Oddati, membro della segreteria con la responsabilità della cultura, che schiera il Nazareno sulle posizioni toste di Giuseppe Conte contro l’Europa. Ma che, consciamente o meno, segnala anche lo squagliamento di fatto del partito che pare ormai servire solo come infrastruttura del contismo, come suo instrumentum regni da maneggiare senza tanti problemi. 

Addomesticando il Partito democratico, l’avvocato del popolo compie forse il suo capolavoro politico, ancor più della sterilizzazione grillina, che è nei fatti prima ancora che nei propositi. Ed è una piega sorprendente della situazione attuale, di certo accelerata dall’emergenza del Covid-19 ma che era già inscritta nel cielo della politica fin dalla nascita del secondo governo Conte, un esecutivo con lo stesso premier e lo stesso partito di maggioranza di quello precedente. 

Già, dov’è finito il Pd? Si sente, si riunisce, che cosa fa? Il Nazareno chiuso per ovvie ragioni è la metafora di un partito che si è autosospeso, nella migliore delle ipotesi  per senso di responsabilità. Sdraiato sulle giravolte e i tatticismi del presidente del Consiglio, il Pd finisce per “coprire” tutto: dal no all’ingresso degli immigrati con una motivazione incomprensibile – in Italia c’è il virus: e allora? – che somiglia molto, troppo, ad un’alzata di spalle che niente ha a che vedere col progressismo europeo come ha scritto Francesco Cundari. 

Fino ai toni antieuropei del premier, davvero sovrapponibili a quelli di un Grillo o di un Salvini, che il Pd giustifica con la durezza della trattativa in atto e che però inoculano negli italiani quel virus sovranista che giustamente viene aborrito quando è sparso a piene mani dalla destra. 

All’obiezione, un ministro non certo estremista come Enzo Amendola risponde spiegando che «questo è il momento delle sportellate» per cercare di ammorbidire Berlino e L’Aja: che il compito di menare le mani tocchi ad un premier debole è una delle bizzarrie di questo passaggio storico ma intanto il suo «non cederemo di un millimetro» è piaciuto tanto a Oddati che lo ha rilanciato nel suo tweet. 

Eppure i dem negano che tutto sia lasciato in mano a Conte, perché – è il mantra nazarenico – «non è certo il momento di fare polemiche», tradendo qui una confusione fra «le polemiche» e l’autonomia del proprio ruolo, distinzione effettivamente sottile in questa situazione e tuttavia decisiva agli occhi non solo del proprio elettorato ma a quelli di un’opinione pubblica più larga. 

Sta di fatto che in un momento complicatissimo come questo nel quale vengono al pettine tutti i nodi (lo scontro europeo, i soldi stanziati che non arrivano, la confusione sulla fase 2, l’emergere di scandali gravi e persino gravissimi, il disordine istituzionale, persino il contrasto con i sindaci emerso dalle parole di dem come De Caro e Ricci), proprio in un momento così, dicevamo, dovrebbe venire avanti un’idea generale, progetti specifici, leadership popolari: tutto ciò insomma che fa di un partito, appunto, un partito.

È probabile che il malinteso modello della “forza tranquilla” di Mitterrand sia all’origine dell’inazione del Pd che ha interpretato quella formula in senso troppo letterale, come se quel “tranquilla” consigliasse di fare rumore il meno possibile, anzi, di evitare conflitti: una visione della politica paciosa e rassicurante che forse ha un suo tornaconto elettorale (vedremo) ma che abdica alla sua funzione di costruire consenso attorno ad opzioni precise. È il Pd di Zingaretti, lo si sapeva. In più, la sua forzata assenza ha ulteriormente marginalizzato il suo partito. Ora però è tornato…

Naturalmente la mancanza di protagonismo del Pd – senza nulla togliere al lavoro continuo dei ministri – torna utile al premier ma gli nega però supporto di idee e strumento forte di rapporto con la società, due cose di cui il governo ha invece gran bisogno. In qualche modo se n’è accorto Graziano Delrio che continua a chiedere una cabina di regia, un qualcosa che sorregga un esecutivo in affanno. E non è affatto escluso che il capogruppo del Pd, parlando dell’oggi, guardi al domani, quando bisognerà ricostruire l’economia giovandosi delle personalità più forti del Paese. Che non e affatto detto coincidano con i governanti attuali.

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