Il documento scritto dal Comitato tecnico scientifico, quello che avrebbe convinto Giuseppe Conte alla fase due “rallentata”, contiene errori di calcolo? Il paper di 21 pagine titolato “Valutazione di politiche di riapertura utilizzando contatti sociali e rischio di esposizione professionale”, divide gli esperti di numeri e statistiche.
Tra i grafici, diagrammi e tabelle che riempiono le pagine, il dato che più fa discutere è l’ipotesi del rischio di oltre 151mila pazienti in terapia intensiva nel caso di una ripartenza totale. Quello che più ha spaventato il governo. Nel testo si sostiene che con la riapertura di manifattura, edilizia, commercio, ristorazione e alberghi, con le scuole chiuse e senza telelavoro, si potrebbe arrivare l’8 giugno a 151.231 ricoverati in terapia intensiva, con un picco di 430.866 casi a fine anno.
Dati che, secondo molti sarebbero più che sovrastimati. Considerando che dal 24 febbraio, quando sono iniziate le rilevazioni della Protezione civile, al 29 aprile, i casi di terapia intensiva sono stati in media poco più di 2.200, con il picco massimo di 4.068 casi del 3 aprile. Il dato del Comitato tecnico scientifico è oltre 37 volte di più.
E infine c’è la contestualizzazione dei calcoli: nel documento non si spiega mai come si arriva alle stime finali, uniformando previsioni fatte per la Lombardia all’intero Paese e – commentano i più critici – tenendo inoltre poco in considerazione l’impatto delle attuali dotazioni di protezione individuali sull’evolversi del virus.
A sollevare i primi dubbi è stata un’analisi fatta dalla holding Carisma presieduta da Giovanni Cagnoli pubblicata ieri da Linkiesta secondo cui, in 45 dei 46 scenari esaminati dal Comitato, le previsioni di picco della terapia intensiva sarebbero invece ben inferiori alla capacità nazionale di circa 9mila posti. E quindi molto lontane dai 151mila del risultato finale.
Il problema del documento è di tipo statistico. Quello che sappiamo è che il Covid 19 ha un’incubazione media di circa 5-7 giorni e che dalla manifestazione dei sintomi all’ingresso in terapia intensiva passano in media dieci giorni. Nel testo del Comitato, si ipotizza un tasso di letalità dei contagi (Ifr) pari allo 0,657%, arrivando poi a calcolare la probabilità per età che ogni infezione necessiti di terapia intensiva.
Quindi, calcolando il numero di decessi ufficiali (8.311) in Lombardia al momento del picco della terapia intensiva, il 3 aprile, si arriverebbe a 1.385.000 contagiati. Poiché i casi di terapia intensiva in Lombardia al momento del picco sono stati 1.381, si desume quindi che l’incidenza tra casi di terapia intensiva e infezione sarebbe mediamente dello 0,1%. Si presuppone quindi un’incidenza per fascia di età che, anche se stimata a zero fino a 60 anni di età, arriverebbe a circa 0,3% mediamente oltre i 60 anni di età, scrivono gli analisti di Carisma.
L’imprecisione emergerebbe però quando il testo del Comitato stima che questa incidenza oscilla tra 1% e 6% (mediamente 3,5%), con un errore di almeno dieci volte. Tramite il calcolo di queste incidenze sull’intero territorio, sottolinea la ricerca, si arriverebbe a una stima della popolazione italiana di 260 milioni di abitanti. Duecento milioni in più della reale popolazione italiana.
Ma anche lo studio della holding di Giovanni Cagnoli ha ricevuto critiche da parte di matematici. Questi rilievi sono di due tipi: il peso statistico nei calcoli del flusso che si è verificato nelle terapie intensive degli ospedali (ovvero le persone guarite uscite e quelle decedute) e la stima del livello di criticità delle terapia intensive che il governo fa includendo anche tutti i morti da Covid, anche quando non sono in terapia intensiva.
«Nel primo caso, anche con questi dati in più cambia molto poco, ce ne sarebbero state 3-4 mila in più in terapia intensiva, non certo il numero stimato dal Comitato», spiega a Linkiesta lo stesso Giovanni Cagnoli. «Mentre per la seconda considerazione si tratta di un ragionamento logico errato. Il Comitato che fa i calcoli di quanti letti ha a disposizione non può dire che anche tutti i decessi, anche quelli avvenuti tra le mura domestiche, vanno a saturare quei posti. Altrimenti il calcolo perde la sua funzionalità».
Dove sarebbero quindi gli errori del Comitato tecnico scientifico? «Non essendo un testo scientifico, certamente nel documento del Comitato mancano dettagli rilevanti che andrebbero considerati, ma evidentemente ci sono assunzioni incompatibili», spiega Alessio Farcomeni, esperto di statistica epidemiologica e professore ordinario all’Università Tor Vergata di Roma. «I tassi di mancata diagnosi e i rischi di ricovero sono in contraddizione».
Secondo il professore, il calcolo che ha portato il Comitato tecnico scientifico al rischio di 151mila pazienti nel caso di una riapertura totale potrebbe essere quindi frutto di un errore nella lettura delle percentuale del tasso di letalità dei contagi ipotizzata, pari allo 0,657%. Questo numero, inserito nel codice insieme alle altre variabili da considerare, a guardare il risultato potrebbe essere stato moltiplicato per dieci arrivando al 6,57% e alterando così il risultato finale.
«Purtroppo errori materiali sono molto comuni, specie nel codice. È plausibile che in questo caso ci sia stata da qualche parte una svista di fattore dieci», spiega Farcomeni. «L’altra ipotesi è che, nelle microsimulazioni, potrebbero essere state considerate popolazioni infinite anziché finite senza un tetto massimo» che quindi farebbero crescere via via sempre di più il numero di potenziali pazienti di terapia intensiva andando avanti nel tempo. In ogni caso, aggiunge, «sarebbe utile avere maggiori dettagli sul modello stocastico utilizzato, che nella forma più semplice assume che due residenti a Milano abbiano la stessa probabilità di entrare in contatto di un residente di Milano e uno di Sassari».
Ma, spiega il professore di Tor Vergata, «quello che mi lascia basito è che, nonostante il Comitato abbia a disposizione i dati individuali dei contagiati italiani registrati dall’Istituto superiore di sanità, faccia microsimulazioni basate sulla letteratura anziché stime dirette e più attendibili del numero di soggetti non diagnosticati, del network di contagio eccetera».
Il Comitato sembra anche molto cauto sull’efficacia dell’uso diffuso delle mascherine: «Nel documento si scrive che se tutti portassimo le mascherine ci sarebbe una riduzione del contagio del 25%, mentre gli studi scientifici convergono su un’efficacia maggiore, almeno del 70%», spiega Farcomeni. «Uno studio pubblicato da poco su Nature dice addirittura che se l’80% della popolazione che si trova al chiuso con altre persone utilizza la mascherina, già questo è sufficiente a contenere l’epidemia con un’efficacia del 90%».
Inoltre, «perché non considerare la possibilità, in aggiunta ai dispositivi di protezione e a fronte di un minor distanziamento sociale, di interventi caldeggiati come l’accesso ampio ai test diagnostici e il tracciamento dei contatti recenti di ciascun soggetto diagnosticato?», si chiede lo statistico. «Un articolo apparso su Science calcola che se entro 48 dalla diagnosi siamo in grado di tracciare tutti i contatti degli ultimi cinque giorni, da sola questa cosa può contenere l’epidemia». Queste ipotesi nel documento non si trovano. E non è un caso che neanche Conte ne abbia anche solo accennato nella conferenza stampa di annuncio della fase 2 “rallentata”.
Le differenze nei numeri di contagi tra le regioni spingono poi alcuni economisti a chiedersi perché l’apertura differenziata su base regionale sia stata esclusa a priori. Nel testo del Comitato non compare nemmeno come oggetto di valutazione, mentre lo schema lombardo, cioè quello più grave, è uniformato sui vari territori. Le perplessità sono molte, e su questi temi l’Istituto Superiore di Sanità replicherà oggi, nella conferenza stampa delle 12.