Esperimento è una delle parole che ricorrono più spesso in queste settimane; non tanto per le dicerie cospiratorie sui laboratori segreti di Wuhan, quanto per i test condotti nei laboratori a cielo aperto di quella che due secoli fa si sarebbe chiamata physique sociale. Chi vi dice che con l’occasione della pandemia è in atto un esperimento sociale e politico su larga scala non vi dice il falso, sempre che non cerchi di rifilarvi la fantasia del Grande Sperimentatore nascosto nell’ombra.
È semmai un procedere a tentoni, alla cieca, da parte di attori variamente responsabili che si trovano a operare in condizioni sconosciute e impreviste, e non ha una direzione di marcia riconoscibile – salvo in quei contesti, come l’Ungheria, dove offre il pretesto per procedere più speditamente su un solco già impresso.
In entrambi i casi, che il bisturi sia maneggiato da un onesto chirurgo intenzionato a ricucire tutto al più presto o da un aspirante macellaio che non vede l’ora di passare all’accetta, a noi cellule del corpo sociale infetto è richiesta una cosa sola: lasciar fare, con disposizione fiduciosa e collaborativa.
Stiamo saggiando i limiti di quel che siamo disposti a tollerare, sia pure in tempi di emergenza; e quanto più alta è la quota di libertà, garanzie e riservatezza a cui ci sembra oggi naturale rinunciare, tanto più i macellai di domani che dovessero sostituirsi ai chirurghi troveranno la strada spianata.
Nel 1955 la University of Chicago Press pubblicò un libro del giornalista Milton Mayer, They thought they were free. The Germans 1933-45, dove l’essenziale è nel titolo: i tedeschi intervistati da Mayer dopo la guerra faticavano a capire di essere stati liberati da una tirannia perché, appunto, erano convinti di essere già liberi.
Il colloquio più illuminante Mayer lo ha con un filologo, e vale la pena riportarne qualche stralcio: «Quel che è accaduto, qui, è la graduale assuefazione delle persone, a poco a poco, a essere prese alla sprovvista dal governo; ad accettare decisioni prese in segreto; a credere che la situazione fosse così complicata che il governo era costretto ad agire in base a informazioni che la gente non avrebbe potuto capire, oppure così pericolosa che, se anche la gente avesse potuto capirle, non era possibile divulgare queste informazioni per ragioni di sicurezza nazionale».
«Vivere all’interno di questo processo, mi creda, comporta non essere assolutamente in grado di accorgersene, salvo avere un livello di consapevolezza politica molto più alto di quanto la maggior parte di noi avesse mai potuto sviluppare. Ogni passo era così piccolo, così inconseguente, così ben motivato o a volte comunicato “con rammarico” che, a meno che uno fosse distaccato dall’intero processo fin dall’inizio, ne comprendesse da subito il senso generale e intuisse a cosa avrebbero portato un giorno tutte queste “piccole misure” di cui nessun “tedesco patriottico” poteva lamentarsi, gli era del tutto impossibile vederne lo sviluppo giorno dopo giorno, così come un contadino non riesce a vedere il granturco che cresce nel suo campo. Poi un giorno se lo ritrova sopra la testa».
Il filologo citava a Mayer due motti latini, principiis obsta e finem respice, “opponiti agli inizi” e “guarda alla fine”; ma che cosa fare quando gli inizi sono impercettibili e la fine è avvolta nella nebbia? Ti dicono: non va poi così male, vedi cose che non esistono, sei un allarmista. «E tu sei un allarmista. Tu dici che questo deve portare a quello, ma non puoi provarlo. Sono gli inizi, è vero; ma come puoi saperlo per certo se non conosci la fine; e come puoi conoscere, o anche solo congetturare, questa fine?».
Così lasci correre, in attesa del grande evento che segnerà una cesura inequivocabile e costringerà tutti a prendere coscienza, a ribellarsi. Ma questo evento non arriva mai, perché non è così che vanno le cose. «Nel mezzo vengono centinaia di piccoli passi, alcuni impercettibili, ognuno dei quali ti prepara a non essere scioccato dal passo successivo. Il passo C non è poi tanto peggio del passo B, e se non ti sei opposto a B, perché dovresti opporti a C? Così procedi verso il passo D».
«La vita è un processo continuo, un flusso, non una successione di atti e di eventi. Il suo flusso ha raggiunto un nuovo livello, trascinandoti con sé, senza alcuno sforzo da parte tua. A questo nuovo livello riesci a vivere, anzi vivi di giorno in giorno in modo più confortevole, con una nuova morale, dei nuovi principi. Hai accettato cose che non avresti accettato cinque anni prima, o un anno prima, cose che tuo padre non avrebbe potuto immaginare. Finché, improvvisamente, viene giù tutto insieme».
Così l’anonimo filologo. Non sappiamo dove ci porterà, alla fine, la strada che abbiamo dovuto imboccare nostro malgrado, ma faremmo bene a non dare segnali di assuefazione, a dire chiaramente – e a dirlo ora – che tutto questo ci pesa, che queste rinunce, queste limitazioni, queste intrusioni nelle nostre vite non sono e non devono mai diventare la normalità. È un messaggio da mandare ai chirurghi pasticcioni di oggi, ma perché lo intendano gli aspiranti macellai di domani. Principiis obsta.