Il presente, oggi, è un concetto sfuggente, e tuttavia non ci rimane che esso, l’indiscutibile qui e ora. Oggi siamo i nostri bisogni immediati, il tirare a campare, bene o male, ma pur sempre tirare. Non siamo più contemporanei, perché sembra impossibile esserlo. Contemporanei a cosa, se il tempo non esiste più?
E sarebbe una gran novità, la prima generazione che non riesce a essere contemporanea a sé stessa. Il presente non c’è; non riusciamo a intravederne che la cornice – la finestra, accesso perfetto all’assenza del mondo. Non si parla del presente da decifrare, interpretare, capire. Sono proprio i tratti della quotidianità a sfuggirci. Il desiderio di quello che c’è fuori dalla finestra è vacuo.
Non c’è niente fuori dalla finestra, se si eccettuano i nostri ricordi. E questa è la forma di isolamento più barbara, alla quale siamo per ora civilmente costretti. Disinnescare il desiderio scombussola l’indiscutibile agilità di noi “cosi con due gambe”, da sempre pronti a domare, piegare, essere la natura e costruire l’artificio, oggi, adesso, ora. Non dopo, non domani. Ora. Invece ora, no. Il presente non è che un ricordo.
Non sarà solo il salasso di vite umane strappate alle nostre comunità dalla mano invisibile che ha impedito a troppi di accarezzare l’ultima volta, nel presente, chi se n’è andato. Ci sarà forse un riassetto generalizzato del do ut des, dello scambio, del patto sociale, e, non ultimo, delle ambizioni personali e degli standard sociali che ci sono richiesti. E il tutto passando dal pensiero inaccettabile che il maledetto virus fa certamente del bene al pianeta e forse, se ci consideriamo come specie, l’unica cosa che siamo per la natura, anche il nostro di bene.
I deboli muoiono, i forti si rafforzano, gli anziani ci lasciano con tutte le ricadute orribilmente positive che ciò ha sul piano demografico e dunque economico. A dirla tutta, il virus è il futuro. Ma questo pensiero, quello che mette i numeri al posto delle persone, è inaccettabile, e dunque, lo scacciamo come il pensiero della nostra stessa morte.
Riabbassando lo sguardo sulla finestra aperta sembra che oggi, provare a essere contemporanei non possa che voler dire no frills, party is over. Dopo quasi ottant’anni di pace e progresso – l’indiscutibile golden age dell’umanità – ora c’è l’invisibile lutto, il blocco totale, il regresso a un tasso di mobilità che nemmeno nell’alto medioevo era così limitato. Siamo uccelletti migratori che girano in tondo, senza bussola. Da un po’. E adesso iniziamo a chiederci che diranno di noi gli altri uccelletti intorno a noi. Perché lì si annida – negli altri – il senso più grande di quel che ci sta accadendo.
Cosa diranno gli altri se non potremo più affittare la seconda casa, se addirittura la venderemo, mentre giriamo in tondo senza fatturare? Se dovremo trasferirci in un appartamento più piccolo, in una zona peggiore di quella cui siamo abituati e che ci definisce? Problemi business class, di quelli che solo l’élite può permettersi di avere, ahinoi, nell’unica modalità che le è rimasta, dopo che, con un giro francamente sorprendente, il potere è in effetti arrivato dalle parti del popolo. Per gli altri di noi – economy class – sarà più o meno lo stesso, che la seconda casa chi l’ha mai vista.
Ci sarà da mettere in tavola primo e secondo, di tirare alla fine del mese, ospedali e medicina del territorio che funzionino e una scuola dignitosa. La percentuale di chi non può essere raggiunto dalla volenterosa scuola on-line è pericolosamente alta. Se davvero sarà lockdown ritmico fino al vaccino la flessione della qualità dei risultati degli studenti avrà un effetto per decenni. Per loro, gli ultimi, e per qualcuno di noi, i medi, i precari di lusso, il presente esiste. Ma solo gli ultimi veri sono contemporanei. Lo sono da sempre, loro. Ignari del passato, impossibilitati al futuro anche quando c’era.
Spogliarsi e soffrire – le cose che ho imparato! – cercare l’essenziale, trovare una nuova coolness che se ne sbatte di quel che pensano gli altri, perché c’è il covid e siamo tutti fighi in modo diverso. Uguale, ma diverso. Ora pare che neanche avere la barba sia consigliato, impedisce alla mascherina di aderire al viso e i peli trattengono la sputazza-droplet infetta. Per non parlare del parrucchiere – che tanto vale radersi del tutto se non hai il barber shop di fiducia che ti fa il trimming. Scomparirà l’hipster come categoria, rimarranno gli hipsters singoli, più simpatici che in gruppo.
Senza fare finta, forse, di aver superato i nostri traumi adolescenziali, lo sfigato che siamo e che aleggia come un fantasma alle nostre spalle. Più grande il successo, più grande il fantasma. Essere contemporanei. Due dita in bocca alla decrescita felice (e chi ci ha mai creduto) e braccia aperte alla decrescita temporaneamente infelice. Non ci siamo tutti dentro, già detto, la classe media, il creativo e il dirigente, sì. Il riccastro da generazioni se la caverà come in guerra.
Noialtri mortali, in quanto mortali, non abbiamo scelta: dovremo acchiappare sto presente schifo e farcene una ragione. Diventare contemporanei, dimenticare ambizioni sbagliate e spacconate più o meno rivestite da chicchismo erotizzato ma impotente e ridere di noi, meglio di prima e più di prima.
Si tratta di andare a vivere in una casa più piccola? Di accettare fees inferiori a quelle cui eravamo abituati? Risparmiare sul foulard-mascherina alla moda? non tagliarci i capelli (tranne Cacciari che ha una macchinetta dotata di specchietto che gli permette di tagliarseli da solo, da anni)? Questo e altro. Non saremo migliori, ma un tentativo si potrà pur fare. Obbligato: son pochi gli aristo e arricchiti che potranno godersela in dimore campestri, al sicuro da generazioni e geneticamente indifferenti al presente.
Noi altri ci giudicheremo meno quando al primo drink non saremo in formissima, i culi caduchi causa scarsa deambulazione, le pettinature finalmente approssimative, il narcisismo da aperitivo liberato dei suoi aspetti più deleteri. Fine dello show-off, si spera. Probabilmente nessuno parlerà, urleremo cose a caso, ubriachi e scemi come bambini in gita.
E pur non avendo imparato niente, perché l’evoluzione non si apprende, la si subisce, avremo l’uomo nuovo, ahinoi diverso da quello che illumina il finale del libro dell’anno. E saremo noi, tu, io, voi questi uomini nuovi. Pronti ad ubbidire (ma quando mai prima?), forse addirittura a pagare le tasse perché la sanità pubblica serve eccome, a vendere il SUV che inquina e a fottercene di chi ci guarda solo da fuori.
Smettere di vergognarci delle nostre ambizioni fallite sarà il passo successivo. Guarderemo tutti un po’ più dentro, ognuno con i suoi strumenti e istinti e saremo guidati da una classe dirigente competente che farà tesoro del primo e unico insegnamento dell’amico virus: i numeri esistono. Le quantità, che con essi misuriamo, pure. E la scienza che su numeri e quantità si basa regnerà sovrana a schiaffoni, lasciando le carezze a Francesco e ai suoi duemila anni di storia portati bene, fottendosene di chi non vorrà diventare il presente che già è e che dovremo ricordare di essere, ora e domani.