Pedagogismo civileL’insostenibile retorica del giornalista collettivo

Dobbiamo tutti. Siamo tutti chiamati. Facciamo tutti. Proviamo tutti. Sono i codici d’ingaggio della retorica ammonitoria in cui si esercita certo giornalismo (in realtà pressoché tutto) durante la Grande Infezione

Dobbiamo tutti. Siamo tutti chiamati. Facciamo tutti. Proviamo tutti. Sono i codici d’ingaggio della retorica ammonitoria in cui si esercita certo giornalismo (in realtà pressoché tutto) durante la Grande Infezione. «Dobbiamo tutti capire che prima viene la salute!». «Siamo tutti chiamati a rispettare le regole!». «Facciamo tutti quel che ci ordinano, che è per il nostro bene!». E soprattutto: «Proviamo tutti a pensare che ne usciremo migliori!».

Non si capisce a che titolo il giornalista ritenga di doversi impegnare in questa specie di balordo pedagogismo civile. Che si tratti della firma rinomata o invece del poveraccio fresco di corso dove qualche somaro come lui gli ha imparato quattro rimasticature da brevetto serale, la propensione è la stessa: il bigino delle buone condotte in tempo di crisi con digressioni di morale stracciona sulle tradizionalità ritrovate, le polpette della nonna in felice sostituzione della pausa pranzo con burger globalizzato, che così salviamo anche gli alberi dell’Amazzonia, e poi finalmente il tempo «per un buon libro» e ovviamente per la preghiera, tanto più bella quando ci implica nella genuina intimità del tinello dopo le fatiche della trincea balconara.

Non ha un’idea manco a pagargliela oro, e quando ce l’ha è tonta, e a metterla giù in italiano decente non se ne parla: eppure, tutto composto nel suo armamento di pressapochismo cialtrone, ignorante abbestia, patentato nell’accesso plebeo al «dovere di informare», ti squaderna il suo prontuario del buon vivere in tempo d’emergenza spiegandoti qual è il bene di tutti e che «uniti ce la faremo».

Non erano ancora in gazzetta gli strafalcioni inibitori decretati dall’avvocato del popolo che questo qui, il giornalista, s’incaricava di far dottrina non si dice sul disinfettante adatto o sulla mascherina fai da te, che ancora passi, ma sulle supreme filosofie della disciplina nazionale «contro questo terribile nemico»: e giù a dirci quant’è duro ma bello abituarsi alle privazioni, quant’è faticoso ma giusto osservare le regole, che sono per il bene nostro e degli altri, e d’altra parte quant’è comprensibile ma inopportuno «far polemiche» in questo periodo, che chi ci governa potrà anche sbagliare qualcosa ma dopotutto «vorrei vedere te se avessi quella responsabilità». 

Ergo, i diritti costituzionali esposti al malestro delle ordinanze made in Casaleggioland dobbiamo metterli sul conto delle cose inevitabili e su cui non bisogna discutere troppo: perché altrimenti addio al preminente interesse di Patria, già abbastanza a rischio nell’assedio della perfidia tedesca e nel risorgere delle fameliche cospirazioni degli usurai di Bruxelles. 

E pace se un ministro analfabeta magari eccede un pochetto quando promette leggi «più ferree» contro gli irresponsabili: lo fa per noi, che peraltro non abbiamo nulla da temere perché in grandissima parte siamo gente perbene, mica come i criminali che fanno grigliate sui tetti di Palermo o i bagnanti doverosamente inseguiti dagli elicotteri democratici. Sono i pochi che con imperdonabile sprezzatura attentano alle perfezioni governative, e la loro insubordinazione dice efficacemente quanto è importante la diuturna opera correttiva del nostro caro giornalista.

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