Oggi scrittori, giornalisti, maitres à penser, intellettuali tentano di rispondere all’interrogativo più angoscioso che si pone a tutti noi: quale “dopo” epidemia ci attende? E un filo rosso collega molte risposte: nulla sarà più come prima. In questa risposta si cela innanzitutto un giudizio negativo sul futuro che è una componente dell’ansia e della paura generate dall’epidemia nell’opinione pubblica mondiale. Mentre siamo travolti dal terrore di essere aggrediti dal virus e di entrare in quelle tragiche statistiche di infettati, intubati, morti, che circolano all’impazzata sui media di tutto il pianeta, l’incertezza sulle nostre capacità di difendere la salute e la stima dei costi economici di questa pandemia si abbattono come un macigno sullo sforzo che ognuno di noi sta facendo per vedere una qualche luce in fondo al tunnel.
Traversie e opportunità
Come spesso accade in queste circostanze non riusciamo a seguire il suggerimento di un grande intellettuale italiano, Giambattista Vico, che tre secoli fa ci stimolava a riconoscere in ogni «traversia» una gamma più o meno grande di «opportunità». In quest’ottica possiamo dire che sarebbe bene sperare che, se non niente, molto non torni come prima.
La prima questione riguarda il sistema sanitario. Come era già accaduto nelle grandi epidemie batteriche ottocentesche, come il colera, o in quelle virali novecentesche, come la Spagnola o l’Asiatica fino alla Sars e alla suina del XXI secolo, queste tremende sindromi favoriscono un salto di qualità nelle conoscenze mediche e nei presidi sanitari. Da questo punto di vista il dopo sarà meglio del prima, perché ne sapremo di più su questi terribili nemici della nostra salute, ma soprattutto avremo imparato che le difese potranno nascere solo dall’incremento della cooperazione internazionale sul piano scientifico e organizzativo. Ovviamente la traversia diventerà opportunità se aumenteranno gli investimenti sul sistema sanitario e sulla ricerca scientifica, se cadranno gli ostacoli politici ed economici che impediscono l’accesso alle cure mediche di molti abitanti del pianeta attraverso politiche sanitarie universalistiche come quelle che del corso dell’ultimo cinquantennio si sono diffuse in Europa.
Se osserviamo l’evoluzione statistica delle grandi pandemie virali del XX secolo possiamo constare che la tendenza è univoca: siamo passati dai trenta milioni di morti della Spagnola – tra il ’18 e il ’19 fece quasi più morti della Grande Guerra tra soldati e civili – ai due milioni circa dell’Asiatica degli 1957-60, al milione della “spaziale” del 68/69 (solo in Italia ci furono 20 mila morti), alle centinaia di migliaia dell’influenza “suina” degli inizi del nostro secolo. Lo stesso processo ha riguardato le malattie esantematiche – dal morbillo alla varicella – che ancora sul finire del secolo scorso producevano oltre 3 milioni di morti e che grazie alla diffusione dei vaccini oggi si sono ridotti a poche decine di migliaia, concentrate nelle aree più povere del mondo. Questi trends mettono in luce che noi impariamo dalle malattie riuscendo ad aumentare le nostre difese di fronte all’attacco dei microbi, siano essi batteri o virus, che fin dalla antichità hanno accompagnato la vita degli esseri umani sulla terra e l’accompagneranno per i secoli a venire.
La fine dell’antiscientismo e la crisi del populismo
L’attesa del vaccino, che ovunque unisce le speranze di tutte le persone, misura il crollo nell’opinione pubblica delle pulsioni antiscientiste che hanno accompagnato per almeno un ventennio l’ascesa del populismo. Dietro la parola d’ordine “uno vale uno” vi era condensato il più pesante attacco nei confronti del sapere e della competenza, del tutto assente nei progetti politici che hanno occupato lo spazio politico degli ultimi cento anni, sia di destra che di sinistra. Il silenzio di Grillo vale più di ogni altra presa di posizione: tutto l’armamentario ideologico del populismo antipolitico esce annichilito di fronte al attacco epidemico.
Anche da questo punto di vista il dopo sarà meglio del prima, perché si è irrobustita la certezza comune che la scienza, questa straordinaria costruzione umana nel quale si condensa un incessante lavoro di ricerca che attraversa i secoli e le generazioni, è l’unica risorsa a nostra disposizione per difenderci dalla malattia e allontanare dalle nostre vite lo spettro della morte.
Di fronte a tutto ciò si chiude l’epoca dei vaffa e degli insulti alla Montalcini e alla Capua, delle scie chimiche e del novax. Il costo di questa scoperta tardiva è stato immenso per il nostro paese, ma chiusi nelle nostre case ci stiamo vaccinando da quella regressione collettiva, di fronte alla presa d’atto che quella cultura politica è sprovvista delle soluzioni reali per farci uscire dalla crisi pandemica: è stata un colpo di teatro, una bolla pubblicitaria, ma alla prima prova vera – quelle della storia, non della cronaca – ha dimostrato di non servire a niente.
Ma anche Matteo Salvini annaspa, perché il Covid-19 è stata la definitiva tomba anche della soluzione nazionalista, perché per uscire dalla morsa serve un governo mondiale delle conoscenze, degli interventi terapeutici e delle politiche sanitarie: «padroni a casa propria» è uno slogan ridicolo di fronte al virus Nulla sarà come prima anche da questo punto di vista in meglio. Se come ha insegnato Carl Schmitt il sovrano è quello che decide nello stato di emergenza, il populismo sovranista ha dimostrato di non avere nessuna decisione da proporre, né Salvini, come Marine Le Pen o Viktor Orbàn, si è affermato come il decisore risolutivo: di fronte alla “guerra pandemica” il sovranismo europeo si è rivelato un movimento politico afasico, senza una narrazione pubblica da proporre, senza una soluzione, perchè anche l’antieuropeismo di maniera si è rivelato un ferro vecchio inutilizzabile; così non era accaduto per il fascismo e il comunismo dopo la Grande Guerra, che avevano risolto a loro favore la crisi delle istituzioni liberali. In quella occasione Mussolini e Lenin erano stati coloro che avevano saputo decidere nello stato di emergenza facendo saltare i precedenti assetti statuali, diventando i nuovi sovrani. Se si voleva una prova tangibile che il fascismo, sotto le mentite spoglie del sovranismo, non fosse alle porte, l’epidemia l’ha fornita in maniera inequivocabile, portandosi via l’inutile discussione che ci ha accompagnato dal 2018.
Europa al bivio: una sanità europea
Ma sul tema della sovranità la pandemia ha aperto un’altra questione che riguarda l’Europa. Se lo stato-nazione e i suoi confini non sono la risposta alla pandemia, non rappresentano la sovranità che serve, non lo è neanche l’Europa se non assume i tratti del centro motore di una nuova sovranità sovranazionale, che però ancora non possiede. In realtà non ce l’ha perché gli stati nazionali non gliela hanno effettivamente ceduta. La sanità è un esempio di scuola. Come ha sostenuto di recente anche l’economista Lorenzo Bini Smaghi non esiste la sanità europea perché gli stati nazionali non hanno mai accettato di cedere sovranità alle istituzioni europee in questa materia, in modo che siano queste ultime a stabilire la struttura del sistema sanitario continentale – dagli stipendi dei medici ai ticket sanitari, ai costi delle prestazioni, alla dislocazione degli ospedali – uniformando l’asse portante del welfare continentale. Per realizzare questo complesso processo riorganizzativo l’UE dovrebbe poter mettere mano ai sistemi fiscali degli stati per finanziare i costi della sanità pubblica europea. Se quindi oggi al cittadino comune l’Europa sembra assente è perché gli stati nazionali le hanno impedito pervicacemente di essere presente, impedendo quella unione fiscale che è la madre di tutte le riforme che vadano nella direzione di aumentare il tasso di federalismo nell’Unione.
Cedere sovranità
Perchè dunque il dopo sia meglio del prima bisogna che gli stati nazione avanzino con più decisone nella cessione della loro sovranità in materie sensibilissime come la sanità, perché la pandemia ha fatto emergere che una sanità unica sarebbe meglio di 27, quali sono oggi gli stati dell’Unione; ma ha anche evidenziato lo scollamento crescente tra le istituzioni europee con il parlamento e la Commissione intenzionate molto più di prima a procedere in direzione dell’integrazione interstatale e il Consiglio europeo, l’organo che riunisce i capi di stato Ue, sempre più arroccato nella estenuante mediazione tra spinte nazionaliste.
La cessione di sovranità è il vero terreno di scontro che sottende anche la complessa questione degli eurobond. Per evitare che appaia quello che non è, cioè una partita tra falchi e colombe sul debito pubblico, tra nordici tirchi e mediterranei spendaccioni, bisogna che soprattutto gli stati che chiedono l’istituzione di un meccanismo solidale di sostegno del debito attraverso l’emissione di obbligazioni garantite dai paesi dell’eurozona dicano con chiarezza che sono disponibili a cedere sovranità sulla gestione del bilancio nazionale con cui garantirli. Fare gli eurobond, dunque, chiama in causa la definizione di quanta sovranità nazionale i singoli stati siano disposti a cedere sulla gestione dei bilanci nazionali, incidendo sulla spesa pubblica altrimenti è una disputa retorica tra presunti neoliberisti e presunti keynesiani, tra sostenitori dell’austerity e suoi avversari, ma si è completamente fuori strada. In gioco torna alla casella decisiva e sempre rimossa dell’unione fiscale e della creazione di un “tributo” europeo che si affianchi a quelli nazionali, con cui sostenere gli eurobond.
Non ripetere gli errori del passato
Ma se risolvere questo problema è assai lungo e complesso, niente sarà più come prima in Europa se essa non riesce, qui e ora, ad affrontare una crisi dell’intero continente che non ha nulla a che vedere con le asimmetrie dei diversi debiti pubblici statali ma che è in grado di produrre lacerazioni economiche e sociali forse più profonde della crisi dei debiti sovrani del 2010-12.
Un bellissimo libro scritto dallo storico Adam Tooze (Lo schianto, Mondadori, 2018), ma passato in Italia sotto silenzio, ha puntualmente messo in luce come il combinato disposto di pulsioni nazionalistiche e di cieca adesione ai dettami della austerity abbia bloccato l’Europa impedendole di promuovere esplicitamente una strategia anticiclica, sul modello dell’America di Obama, in grado di non fare pagare ai cittadini dei paesi più colpiti costi sociali ed economici inutili e controproducenti.
Se Mario Draghi dopo la gestione notarile di Jean-Claude Trichet, padre putativo della signora Christine Lagarde, non avesse utilizzato “politicamente” la Banca centrale europea facendole assumere un ruolo guida del tutto improprio, il destino dell’Unione europea sarebbe stato tragico: Il vento sovranista, antipolitico, illiberale che ha soffiato prepotentemente sull’intero continente e che soffia ancora anche se indebolito, da la misura degli errori commessi dalla leadership conservatrice franco-tedesca di Angela Merkel e di Nicolas Sárközy, incapace di proporre un piano di lunga durata per superare dalla crisi e consolidare l’economia dell’eurozona. Ma se dalle tragiche vicende del 2010-12 emerse che la Merkel non era Konrad Adenauer e nemmeno Helmut Kohl, né Sárközy era Schumann e nemmeno Valéry Giscard d’Estaing, neanche la socialdemocrazia europea non mise in campo uno straccio di alternativa: l’assenza anche in quel campo di eredi di Altiero Spinelli e Jacques Delors confermava che le grandi correnti politiche che avevano contribuito alla nascita della comunità europea erano incapaci di proporre una guida politica effettivamente europeista dell’Unione, in uno dei momenti più bui della sua storia. Nonostante gli sforzi di Matteo Renzi lo spirito di Ventotene era stato archiviato.
Anche oggi si rischia di precipitare negli stessi errori: per non decidere come mobilitare le enormi risorse necessarie a impedire una gravissima recessione attraverso strumenti nuovi che non si avvitino sulle vecchie questioni della ristrutturazione del debito pubblico dei singoli stati, dei “compiti a casa” assegnati da chi si autopromuove come “maestrina dalla penna rossa” di deamicisiana memoria senza averne nessun titolo (Paesi Bassi in testa), il Consiglio europeo lascia tutto nelle mani della Bce, chiamata a garantire la crescita dei debiti sovrani e l’indebitamento delle banche in un quadro di vincoli molto stretto. Indubbiamente, come ha sostenuto Carlo Cottarelli, la Bce con il suo bazooka del Quantitative easing sta facendo molto per sostenere le economie in difficoltà (solo l’Italia ha potuto godere di 220 miliardi di acquisti di Btp) ma non è sufficiente per spigionare quelle politiche di solidarietà necessarie per combattere gli effetti della pandemia che richiedono visione politica e chiarezza della direzione da intraprendere.
Ma il Covid -19 con la sua forza distruttrice imprevedibile e oscura può aiutare la Ue a fare un salto di qualità facendo innanzitutto saltare questo vecchio schema, che la crisi di egemonia della Germania, intrappolata nel declino della Cdu e della Spd, e la crescente improduttività del Consiglio rendono assai più debole che nel decennio precedente; e può farne emergere uno nuovo fondato sul protagonismo del binomio parlamento-commissione, sostenuto da un gruppo di stati autorevoli. Se questo passaggio si realizza per la Ue il dopo sarà molto meglio del prima.