La macchina si è già messa in moto. Il filosofo Alain Finkielkraut l’aveva previsto, qualche giorno fa, in un’intervista con Le Figaro: «Il principio di ragione sufficiente regna sulle nostre rappresentazioni. Tutto deve essere calcolato, e ciò che sembra sfuggire al calcolo, deve avere per forza un colpevole». Mentre si pensa a come programmare la riapertura delle attività economiche, la cosiddetta fase due dell’emergenza, cominciamo a intravedere i lineamenti di quella che potrebbe essere la fase tre: ovvero, la criminalizzazione del contagio.
Con l’inventario degli errori, la trasformazione dei torti in altrettanti delitti, la pubblica indignazione e il desiderio conseguente di veder perseguiti i responsabili il più presto possibile, trasformando la pandemia – che si muove nell’ordine dell’eccezionale – in qualcosa di rituale, come è il processo.
La procura di Bergamo ha aperto un’inchiesta per «epidemia colposa» per ciò che è successo all’ospedale di Alzano. Anche la procura di Milano sta meditando di aprire un’indagine per accertare chi è stato a non voler dichiarare rossa una zona che è poi diventata la più rossa di tutte. Un’altra indagine sta accertando cosa sia successo al Pio Albergo Trivulzio, a Milano, dove sono morte 70 persone a marzo (18 in più dello scorso anno) e 30 a inizio aprile. E dove ci sarebbero stati errori, denunce zittite, referti insabbiati. Indagano anche i magistrati di Prato, per i decessi che sono avvenuti nella struttura di Comeana.
I medici denunciati sono decine. Chi se ne intende, dice che la maggior parte dei casi finirà nel nulla. Il che non equivale a risparmiare a quelli che oggi chiamiamo «angeli» l’obbligo di difendersi dall’addebito della morte di un altro essere umano. La giustizia deve fare il suo corso, si dice in questi casi. È inevitabile, e persino necessario che sia così. Ma cosa si dovrebbe accertare, precisamente? E cosa ci dovremmo aspettare dagli accertamenti?
Da giorni sentiamo dire: «Ci sarà tempo per scoprire chi ha sbagliato». I conti si fanno sempre alla fine, naturalmente. Ma non è detto che i conti tornino. Come si può individuare, infatti, una responsabilità – che nel codice penale è sempre personale – quando in gioco c’è un’incapacità generale di comprendere, un’impreparazione collettiva di fronte a una minaccia che nessuno aveva mai affrontato prima, una resistenza mentale – comune a vari Stati e diversi popoli del mondo – ad accettare che stavamo entrando in una situazione eccezionale e che eccezionali dovevano essere le misure da prendere?
Chi si assumerà il peso del giudizio, passerà in rassegna, attimo per attimo, la storia delle decisioni che sono state prese, delle cose che sono state fatte, oppure sono state omesse. Al rallenti, calcolerà il tempo che c’è voluto per capire una cosa, e poi quello che è stato necessario per agire di conseguenza. Nelle discrepanze tra l’una e l’altra, individuerà lo spazio della responsabilità, che nel linguaggio del codice penale significa reato, dunque crimine, delitto. Avvalendosi di un sapere che si è accumulato nel frattempo, noto come «il senno di poi».
Sull’Atlantic, James Parker ha fatto un’ode alla fallibilità, partendo dallo studio del Var, la moviola in campo che il calcio ha adottato per ridurre a zero gli errori arbitrali. «Nella realtà – ha scritto – tu non premi il tasto pausa e aspetti che lo schermo ti dica cosa è successo». Il tempo angosciante di chi si è trovato alle prese con la risposta da dare al contagio, nel momento in cui il contagio trasformava ogni scelta in un azzardo, rendendo incerto il terreno su cui si muovevano anche le procedure maggiormente consolidate, oggi – e, ancora di più, domani – sarà osservato, fotogramma dopo fotogramma, come un tempo naturale, nel quale valgono le regole che – da che mondo è mondo – sono sempre valse. Sebbene, il mondo improvvisamente avesse smesso di essere lo stesso di prima.
Il pericolo è che quando la logica della macchina mediatico-giudiziaria prenderà velocità l’errore sarà considerato un’aggravante, anziché la condizione a cui l’essere umano è più esposto nel momento in cui si trova alle prese con una situazione precipitata fuori dalla normalità. La politica italiana ha già cominciato a usare le cose che non hanno funzionato nel campo dell’avversario come uno strumento per attaccarlo. E, tra poco, quando comincerà a esaurirsi anche la fragilissima unità nazionale che ha retto finora, il meccanismo si perfezionerà. La fase tre potrebbe essere un scontro a colpi di inchieste, scagliate dall’uno contro l’altro, e viceversa.
Con le rispettive spalle mediatiche ed editoriali a dar man forte nella zuffa. E tutto perché – dice Alain Finkielkraut – non mandiamo giù l’idea che qualcosa rimanga senza una ragione, che un effetto non abbia un causa, e che quella causa sia circoscrivibile con chiarezza matematica. «Non riusciamo a pensare alla catastrofe che sotto il registro dell’accusa, nella modalità dello scandalo». Puntando il dito e recitando in coro «È tua colpa, tua grandissima colpa».