Gli spot motivazionali in tv, talvolta pieni di retorica, le paginate di ringraziamento sui giornali. Ma anche siti internet con avvisi di servizio, donazioni milionarie agli ospedali e premi per i dipendenti in fabbrica. Com’è cambiato il marketing con la pandemia?
Sono molte le aziende che durante l’emergenza sanitaria e nelle settimane del lockdown non hanno chiuso. Per prima la filiera agroalimentare, ma non solo. Cresce la domanda di molti beni, dal cibo all’igiene. Un periodo talmente inedito e drammatico da rivoluzionare anche le strategie comunicative di grandi marchi.
Coca Cola ha sospeso le attività pubblicitarie perché «la nostra priorità è occuparci della sicurezza e salute dei nostri colleghi e della comunità». La multinazionale delle bibite ha donato complessivamente 120 milioni di dollari nel mondo. Anche l’Acqua Levissima ha deciso di non investire sulla tv e di devolvere gli importi all’Agenzia Nazionale di tutela della salute della montagna e all’Azienda Sanitaria della Valtellina.
In silenzio anche la famiglia Ferrero, che ha donato dieci milioni alla struttura commissariale per l’emergenza coronavirus e dato un bonus ai propri dipendenti.
In molti però non hanno rinunciato alla televisione. In settimane di misure restrittive, la platea dei telespettatori si è allargata notevolmente: tutti a casa, col telecomando. Come durante i mondiali di calcio, anche nella pandemia gli spot riscoprono l’orgoglio italiano.
Invitano a restare a casa e a rispettare le regole, così ce la faremo. Diversi brand scelgono di ringraziare chi continua a lavorare o chi, come operatori sanitari e forze dell’ordine, ha garantito servizi fondamentali. Barilla ha rispolverato la sua colonna sonora composta da Vangelis per uno spot con la voce di Sophia Loren che ringrazia l’Italia che resiste.
Il gruppo di Parma ha pure acquistato pagine sui quotidiani nazionali e su alcuni locali per fare nomi e cognomi dei dipendenti che non hanno mai smesso di lavorare. Ma la multinazionale alimentare ha donato anche due milioni di euro a Protezione Civile, Croce Rossa e all’ospedale di Parma, dove il gruppo ha la fabbrica di pasta più grande al mondo.
La tv resta il terreno preferito per molti marchi. Il pastificio Rummo ha dedicato uno spot tv ai nonni d’Italia, mentre Star racconta le cucine delle case degli italiani. Le pubblicità ricalcano spesso i nuovi momenti della vita ai tempi del Covid. Come le videochiamate, diventate l’unico modo per vedersi. Vodafone ha realizzato uno spot televisivo in “smart working” con registi, professionisti e famiglie direttamente nelle loro case per raccontare l’importanza della connettività. Lavazza, che ha premiato i dipendenti e donato soldi agli ospedali piemontesi, ha organizzato su Instagram alcune “colazioni virtuali” con artisti e opinionisti.
I supermercati sono stati tra i pochi negozi aperti durante le settimane della pandemia. Inizialmente presi d’assalto, con scaffali vuoti e code notturne, sono diventati presìdi psicologici per chi poteva uscire di casa solo con la lista della spesa.
Esselunga è uno dei colossi della grande distribuzione. Con l’emergenza sanitaria ha sospeso le campagne commerciali, la cartellonistica, la pubblicità sui quotidiani e i volantini porta a porta, lasciando spazio a messaggi di servizio. «Non volevamo che una nostra offerta commerciale comparisse sul giornale accanto a un articolo in cui si dava notizia dei morti. Abbiamo spento gli impianti della comunicazione tradizionale per spiegare come avevamo messo in sicurezza le nostre strutture», racconta a Linkiesta Roberto Selva, Chief Marketing & Customer Officer di Esselunga.
«Il nostro slogan è “aiutateci ad aiutarvi”, così abbiamo cercato di dare risposte ai clienti, spiegando le ordinanze che cambiavano da regione a regione, comunicando una serie di misure prese nei nostri supermercati come la priorità al personale medico e agli over 65, la chiusura dei reparti in cui si rischiavano assembramenti, la misurazione della temperatura all’ingresso, il “distanziometro” alle casse, la creazione di un’app per fare la fila da casa. Abbiamo cercato di spiegare che non c’era nessun problema sugli assortimenti dei prodotti».
Gli investimenti pubblicitari sono stati dirottati sulla comunicazione di servizio, ma anche sugli aiuti economici per fronteggiare l’emergenza. «Abbiamo drenato risorse e spostato il tiro». Così dal quartier generale di Limito di Pioltello è partita una donazione di 2,5 milioni di euro per ospedali come lo Spallanzani di Roma, il Sacco di Milano, il Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
Parallelamente, usando lo strumento della carta fedeltà, Esselunga ha raccolto 1,2 milioni di euro tra i propri clienti da destinare ai nosocomi di Brescia, Cremona, Torino, Bologna. Poi è arrivato uno spot televisivo per ringraziare la filiera che consente di fare la spesa.
«Garantire le operazioni in questo periodo – spiega il manager – non è semplice. Dal mio ufficio vedo partire e arrivare camion continuamente. Siamo andati a consegnare la spesa a domicilio anche nella zona rossa di Codogno, con i nostri operatori bardati come a Chernobyl». Intanto, durante la pandemia sono dovute cambiare anche le abitudini.
La spesa online è letteralmente esplosa, con una domanda aumentata di venti volte rispetto alla capacità ordinaria di Esselunga. E sugli scaffali degli ipermercati si affermano nuovi modelli di consumo. Spiega Roberto Selva: «Ci sono prodotti che hanno avuto nuova vita. La candeggina era ferma da decenni, ora ha avuto un aumento del 150 per cento nelle vendite. Invece del pane fresco, oggi molti clienti preferiscono il lievito».
Chi ha deciso di non cambiare la comunicazione in tempi di emergenza è stata Mutti, azienda specializzata in conserve che produce e distribuisce pomodoro in novanta Paesi del mondo. Racconta a Linkiesta l’amministratore delegato Francesco Mutti: «Ognuno vive questo momento in modo diverso e c’è chi è stato drammaticamente colpito. Noi abbiamo provato a separare il marketing dalla sensibilità individuale. Ci occupiamo di pomodoro, lo dobbiamo fare al meglio e non intervenire su temi infinitamente superiori al nostro lavoro. Non siamo virologi. E lavoriamo perché il consumatore possa provare il nostro prodotto nel miglior modo possibile a prescindere da quello che ci sta succedendo. Non crediamo che il nostro approccio debba essere diverso nella fase uno, due o tre. Anche perché da noi la comunicazione passa quasi in secondo piano, rispetto al prodotto».
L’azienda ha scelto la strada della concretezza donando 500 mila euro all’ospedale di Parma, città in cui ha sede Mutti. Ma l’imprenditore ha deciso anche di aumentare del 25 per cento lo stipendio ai lavoratori. «Lo abbiamo fatto per ringraziarli. Loro non hanno potuto fare smart working e sono stati eccezionali, hanno dimostrato grande disponibilità in un momento particolare, con un tasso di assenteismo al limite del fisiologico».
Si lavora a pieno ritmo, nonostante le difficoltà. La crescita delle vendite è stata talmente importante da creare problemi in termini di stock. D’altronde, spiega Mutti, c’è anche un elemento psicologico da non sottovalutare durante la pandemia: «Il nostro orgoglio è quello di far parte di una filiera essenziale. Mai come in questo periodo è stato importante non far mancare i prodotti alimentari dagli scaffali dei supermercati. Ormai diamo per scontato il cibo. Abbiamo il frigo vuoto solo quando rientriamo dalle ferie, ma la sofferenza della fame è un’altra cosa. Un racconto indicibile, come quelli che mi faceva mio nonno».
Il lockdown, forse, sta per finire. Più delle strategie di marketing, Mutti pensa ad altro: «Ci stiamo chiedendo come i nostri agricoltori riusciranno a reperire manodopera, come sarà il lavoro tra tre mesi, quando ad agosto si raccolgono i pomodori, e come si lavorerà con mascherina e occhiali». Per la fase due del Paese non c’è comunicazione che tenga.