Primo in classifica ma ultimo della classe. Il Belgio è diventato un caso a livello internazionale per essere il primo Paese non solo in Europa, ma al mondo, per rapporto fra morti da coronavirus e popolazione e fra decessi e contagi.
11,4 milioni gli abitanti, quasi 6mila le vittime dall’inizio della pandemia – 5.828, per l’esattezza, nel rapporto datato 20 aprile -, secondo il contatore della John Hopkins University, che aggrega i dati provenienti dalle autorità sanitarie di tutto il mondo.
Undicesimo nella graduatoria globale dei contagi i con circa 40mila casi, il Belgio è schizzato in cima alla poco invidiabile classifica del tasso di mortalità, superando anche Paesi come Stati Uniti, Italia e Spagna, dove s’è registrato il boom di focolai. Ogni cento pazienti ne muoiono 15; circa 50 morti ogni 100mila abitanti in un Paese che ha grossomodo la stessa popolazione della Lombardia.
Eppure, nonostante le proporzioni catastrofiche, la sanità belga non sembra essere alle strette, poco più di un mese dopo l’inizio del lockdown. Il picco statistico dipenderebbe infatti dal modo in cui le autorità belghe stanno raccogliendo i dati. Mentre il numeratore della gran parte degli altri Paesi considera come vittime confermate solo quelle che si registrano nelle strutture ospedaliere, il Belgio include pure tutte quelle morti sospette che avvengono nelle case di riposo (il 54% del totale), anche se non c’è alcun riscontro che il decesso sia stato causato dal COVID-19.
Un atteggiamento precauzionale che consente di individuare e isolare verosimili focolai e spinge a non abbassare la guardia. «Ecco perché, se davvero vogliamo fare un paragone con altri Stati, il nostro numero andrebbe dimezzato», dice a POLITICO Steven Van Gucht, che coordina il comitato scientifico del governo.
E se fosse Bruxelles – che per una volta torna ad essere la capitale del Belgio, e non la città delle istituzioni dell’Unione europea – ad avere ragione?
E dire che nella patria di René Magritte, il surrealismo è anche una questione istituzionale. La competenza sanitaria è infatti condivisa fra vari livelli di governo delle diverse entità che compongono la federazione (Fiandre, Vallonia e regione di Bruxelles-capitale).
Il conteggio à la belge consente di evitare di sottostimare la portata dei casi, ma rischia di portare con sé uno stigma reputazionale non da poco nei rapporti con Paesi confinanti come Francia e Olanda, mentre le frontiere sono ancora chiuse. Di certo, quello delle autorità sanitarie belghe non è un calcolo politico. Anzi. Al governo lodano la trasparenza, ma spererebbero in un approccio più cauto che eviti i sensazionalismi. Lo ha detto durante un question time in Parlamento la premier Sophie Wilmès, che nel caleidoscopico panorama politico del Belgio emerge sempre più come la nocchiera del Paese nell’ora della crisi, la più buia dai tempi della Seconda guerra mondiale.
In effetti, la pandemia di COVID-19 è riuscita in un’impresa non da poco: dotare il Belgio di un governo nel pieno dei suoi poteri (e persino di munirlo di poteri speciali).
Nei giorni in cui si registravano le prime morti da COVID-19 nel Paese, infatti, continuavano incessantemente ma stancamente le consultazioni dei due emissari reali incaricati di trovare una maggioranza parlamentare dopo che le elezioni legislative del maggio scorso avevano dato al Belgio un nuovo Parlamento, polarizzato come non mai fra le due componenti linguistiche – la fiamminga neerlandese e la vallona francofona – e frammentato nella rappresentanza politica fra exploit delle destre nazionaliste nelle Fiandre e rimonta della sinistra in Vallonia.
Gregaria di governo fino a qualche mese fa, la 45enne Wilmès, liberale francofona ma con un buon neerlandese parlato (il che aiuta, da queste parti), si è trovata catapultata nella prima linea della trincea politica belga per una serie di combinazioni e di veti incrociati che il lettore italiano può ricondurre all’origine del fenomeno Giuseppe Conte. Eppure, dai tempi della Grande Guerra, di trincee i belgi se ne intendono, e sanno anche farne un punto di forza.
Per un breve periodo funzionaria della Commissione europea, è dalla posh Uccle, il quartiere bene della capitale belga, che la bruxellese Sophie Wilmès inizia a muovere i primi passi in politica. Consigliere municipale, poi la politica locale, il Parlamento federale e quindi, dal 2015, l’ingresso nell’esecutivo come responsabile del Bilancio. Quando a novembre il primo ministro uscente Charles Michel si insedia alla guida del Consiglio europeo – è la seconda volta su tre che i capi di Stato e di governo dell’Ue scelgono un belga per il ruolo, probabilmente sedotti dalle necessarie virtù conciliatorie -, Wilmès subentra come premier ad interim, la prima volta per una donna.
Doveva solo essere una soluzione temporanea; è diventata il nuovo perno attorno a cui ruota l’assetto politico belga.
Fino all’esplosione dei contagi da coronavirus anche nel Vecchio continente, tutto lasciava presagire che il regno di Sua Maestà Filippo si stesse muovendo infatti nella stessa direzione di dieci anni fa, quando restò senza governo per 541 giorni – ancora oggi imbattuto record mondiale.
I primi decessi da COVID-19 anche in Belgio hanno però consigliato prudenza (anche sui social network, con l’hashtag #keepsophie), interrotto stavolta il peculiare contatore a 454 giorni senza esecutivo e fatto insediare Wilmès alla guida di un governo vero e proprio, anche se di minoranza, che ha ottenuto la fiducia del Parlamento. Formato dai liberali francofoni e fiamminghi, insieme ai cristiano-democratici delle Fiandre, l’esecutivo d’emergenza ha ricevuto l’appoggio esterno di varie forze (dai socialdemocratici ai verdi, passando per i centristi), ma ha un mandato preciso – gestire l’emergenza socio-economico-sanitaria causata dal coronavirus anche attraverso la decretazione d’urgenza – e un orizzonte politico ben definito: sei mesi. «A settembre tornerò a rimettere il mio mandato a quest’Aula», ha detto Sophie Wilmès il giorno della fiducia.
Le foto del giuramento portano con sé la gravità del momento: tutti i ministri in posa sulle scale del Palazzo Reale, disposti così da rispettare il metro e mezzo di distanziamento sociale.
In tanti aspiranti alla premiership – tra questi, l’ex governatore vallone Paul Magnette, idolo anti-global europeo ai tempi dell’opposizione, poi rinegoziata, al CETA, il trattato di libero scambio dell’Ue con il Canada – si ritrovano col cerino in mano ad assistere alle conferenze stampa e al piglio decisionista di una premier che media fra le innumerevoli anime politiche e linguistiche del Paese e annuncia per il 3 maggio l’avvio della fase due, ma con la possibilità di tornare indietro e ripristinare qualche misura restrittiva, se necessario.
Sono in tanti adesso a scommettere che Sophie Wilmès, la premier per caso, è qui per restare.