In un solo mese l’epidemia si è fatta pandemia, e ha conquistato, almeno per sé, sempre più certezze: gli obitori ricolmi di bare, salme in attesa delle cremazioni, il gasolio per praticarle ormai introvabile. Così fino a quando due sconosciute mi si sono accostate in strada, anzi, quasi mi sono venute addosso.
Forse però è il caso di procedere con ordine, senza fermo-immagine sulle ragazze comparse all’improvviso, tornando invece alla partenza di Valeria.
Sentivo un senso di pienezza espressiva insieme a lei, la ragazza possedeva le parole esatte per restituire le sensazioni, che è poi il senso stesso della cultura, della letteratura: dare un nome alle cose.
La guardavo sempre in quei momenti, mentre pensava e un attimo riversava ogni idea su un foglietto, per poi metterla nel computer. Ancora adesso ripenso la sua mano accostata al mento e alle labbra. Noi seduti accanto, a mettere parola dopo parola, a cancellare intere frasi, riscrivere tutto daccapo, a dire: “Sì, ci siamo quasi, Valeria, stiamo per farcela, la vedo già, la vedo proprio, mi sembra una buona storia.”
È stato proprio in questo modo che abbiamo inventato decine di barzellette.
Ritenevamo potessero diventare presto da tutti risapute e propalate, leggendarie, le avremmo presto perse di vista, come accade sempre con le storie quando diventano patrimonio comune, quasi come i figli adolescenti quando escono da soli per la prima volta, e intanto i genitori, nella luce tardo pomeridiana, non vedendoli rincasare, fra mille timori e congetture tragiche, li immaginano già dentro i cassetti della morgue.
Ci eravamo conosciuti per caso perché, forse, il meraviglioso accade senza ordine apparente: in un locale minuscolo, trattoria senza pretese, colma già dalle prime ore di residenti del rione; alle pareti i ritratti dei genitori da anni deceduti, dei gestori, le foto con dedica di un trequartista e di un attore poco celebre che interpretava un tenente colonnello dei parà in un film. Le prime parole da un tavolo all’altro, e Valeria che rilancia facendo un segno affermativo con il capo, Valeria, cosa rara, quel primo giorno, possiede la semplicità di chi non sembra temere nulla, neppure il fraintendimento. Senza questa dote non mi sarebbe rimasta accanto per oltre tre anni.
Non ho mai voluto conoscere nulla della sua vita privata, e lei non ne parlava, le note essenziali: sapevo che aveva un uomo, alto, chiaro, con pochi capelli, così gentile con lei da sembrare un figlio minore; ogni fine settimana andavano via insieme a fare escursioni, la passione per la natura, ciò che personalmente mi ha sempre dato noia.
La ritrovavo il lunedì mattina, la sua voce al citofono: è lei, straripa di idee, Valeria, pronta ad accostarle, docile, sui file del computer. Non c’entrava il sentimento che esiste fra gli amanti; solo una volta, è vero, abbiamo fatto qualcos’altro: ci siamo spinti a scoprire le nostre labbra, ci siamo baciati, ho assaporato la sua saliva, la sua lingua di ragazza, ed è stato come fare ritorno alla meraviglia delle merende dell’infanzia, tutt’intorno un paesaggio di cabine d’azzurro cinerino, la spiaggia in attesa del giudizio universale, dell’autunno imminente, un bacio trattenuto e insieme impagabile, pura devozione.
Amavo soprattutto il suo sguardo sulle cose, anche le più inesistenti, soprattutto su quelle, le cose che attendevano ancora d’essere messe al mondo, come le nostre storie.
Poi Valeria ha scelto di partire, pensavo soltanto al vuoto che sarebbe rimasto nel nostro lavoro, senza mai scongiurarla, neppure dirle delle storie cui stavamo insieme lavorando.
E ignoravo ancora che sarebbe giunta l’epidemia.
Non avevo mai conosciuto un viso luminoso come il suo. Grazie a Valeria sembravano volare via le incertezze; a osservarci da dietro, eravamo un racconto del mondo nel quale bastava mostrare i capelli mossi dal vento sulla nuca per restituire senso alle cose.
Valeria mi stava seduta accanto, davanti al computer, nel mio appartamento: una scrivania, tre sedie e, fissato al muro, il ritaglio una riproduzione ordinaria, banale, di René Magritte: la tela di un paesaggio nel suo cavalletto sovrapposto a un paesaggio reale campestre: albero, uomo, carretto, sfondo, apoteosi bucolica, quiete apparente, se non certa; una bottiglia d’acqua e due bicchieri lì sul tavolo. Tanto basta d’arredo quando si lavora a una barzelletta.
Ora che le distanze sono davvero tali, penso che noi, gli inventori di storie, quando riusciamo nel nostro compito, le rare volte, dovrebbero premiarci e perfino proteggerci con il filo spinato, come le ambasciate dei paesi minacciati dai terroristi, concederci ogni lusso, ogni onorificenza, come credo spetti a chi lavora a rendere servigi allo Stato o sappia decifrare le cose della vita. Magari portando in visita alle nostre stanze intere scolaresche, facendole sostare in silenzio davanti alla nostra prima biro, servita a scrivere il cominciamento di tutto, la prima storia; e che nessuno rida, quasi fossimo alla festa del giorno iniziale del mondo, un istante prima dell’invenzione della scrittura stessa.
Lo stesso sarebbe presto accaduto davanti a una ragazza che provava a dare gioia e luce: la vita senza peste, se ciò è possibile nella nostra città, nelle città tutte, ovunque.
A essere sinceri, dovevo conoscere dall’inizio l’epilogo della nostra frequentazione. Valeria infatti, dal primo giorno, aveva detto che nei suoi piani, prima o poi, ci sarebbe stato un viaggio di studio, più reale delle nostre storie. Ancora adesso, se proprio devo contare il tempo, perché quando c’è la peste occorre, faccio ritorno all’anno I assente Valeria.
“Guido, faccia da prima volta in sala settoria” commentava lei lanciando il suo zaino nel bagagliaio, e non c’era già più, il suo viaggio era incominciato.
Le credevo, certamente sarei sopravvissuto, temevo però che l’avrei ritrovata, come dicono gli inventori di barzellette, in tempo non più utile, a epidemia già consumata, e noi con lei, magari proprio l’ultima settimana del mondo, quando, immenso, l’indice di Dio, se questi c’è, si sarebbe finalmente deciso a emergere dal fondo del suo oceano privato, e, come una freccia, dirigersi verso la foto dove siamo io e Valeria.
Un’istantanea, scattata a Parigi, davanti a una chiesa simile a una fortezza in cemento armato dai pinnacoli déco, in avenue Daumesmil, dedicata allo Spirito Santo, Valeria lì ha gli occhi socchiusi, non si capisce se stia ridendo oppure se lo scatto è venuto male.
Quel giorno, è certo, l’indice di Dio alla fine indicherà me, infinitesimale e sfocato, in verità dirà: “Questo qui, se ricordo bene, si chiama Battaglia Guido, è l’inventore di barzellette. Non mi ha mai fatto ridere, eppure me ne voglio perché non l’ho mai protetto come meriterebbe, non me lo sono portato dietro neppure una volta, non gli ho regalato neanche un pennarello, ma adesso lo riconosco, adesso lo accolgo; ma Valeria, la sua socia, dov’è lei, dov’è finita Valeria?”
Si guarderà intorno, l’Altissimo, e neppure le sue mani, temo, sapranno ritrovarla.
da “La peste nuova”, di Fulvio Abbate, La Nave di Teseo, ebook 7,99