Take away e delivery concessi, sale ancora chiuse per la degustazione nei locali. A 12 ore dalla doccia fredda, molti ristoratori sono ancora storditi dalle notizie date da Conte in conferenza stampa. La prevista riapertura, che sembrava probabile per il 18 maggio, è slittata invece al 1 giugno. Uno dei settori più colpiti è proprio questo, e rischia di pagare la cifra più pesante per le scelte sbagliate da altri.
Riaprire il 1 giugno non è un’opzione, è un suicidio: a detta di moltissimi rappresentanti del settore, questo ritardo può solo accrescere le perdite e costringere molte realtà a fare i conti con un bilancio che non tornerà mai in pareggio. Le telefonate che annunciano le prime chiusure sono sempre di più, e fanno sempre più male: perché questo settore è uno dei traini del nostro Paese e ha portato nel tempo ad avere sempre più stranieri interessati al nostro territorio. Dall’estero vengono (forse faremmo meglio a dire venivano) per l’arte, per il paesaggio, per i musei e le bellezze artistiche: ma uno dei primi motivi di viaggio in Italia – inutile negarlo – è proprio la cucina. Mortificare gli operatori con un trattamento da ultimi della fila non è di sicuro una buona idea. Ai problemi che la riapertura parziale stava preparando, si sommano adesso insormontabili problemi economici, che vanno a esaurire una filiera che faceva già fatica a trovare il punto di equilibrio.
È sconsolato ma rigoroso il pensiero di Mariella Organi, 36 anni di servizio sulla costa marchigiana, nel ristorante stellato con il marito Moreno Cedroni. Un impegno che va al di là dell’affare di famiglia e che è costante sostegno alla categoria, nell’associazione Ambasciatori del Gusto. «Il nostro comparto, che è sempre stato autosufficiente, oggi si trova a pagare un incidente che è stato causato da altri che non hanno assicurazioni. Ci troveremo ad indebitarci per pagare un incidente provocato altri. E ammesso che tu voglia di indebitarti, per avere i finanziamenti devi garantire tutta l’occupazione. Questo è un segnale importante: lo Stato percepisce l’impossibilità di licenziare in una situazione drammatica, ma scarica questa responsabilità sul privato. Questo atteggiamento è drammatico: perché potrà andare avanti solo chi ha i risparmi da bruciare.»
Il grande dispiacere è di non aver mai avuto una dignità e un peso nel nostro paese: ma negli ultimi anni l’incremento dell’export dell’agroalimentare è stato incredibile, e il merito va ai tanti che hanno lottato e lavorato perché questo accadesse. «È deprimente vedere – continua Organi – questa epidemia narrativa dilagante, c’è sempre inquisizione, scandalo, ma nessuno premia i grandi successi di questo Paese e chi c’è dietro. In questo modo nessuno è più incoraggiato a fare: lo scoraggiamento è il mood trainante. Spero che riusciremo a condividere almeno tra noi i problemi o le soluzioni che troveremo, anche in modo anonimo, in modo che dagli errori o dai successi di ciascuno, tutta la categoria possa avere un vantaggio. Alla fine, lo stato deve metterci nella condizione di essere soggetti fiscali: conviene a tutti.»
Le fa eco anche Andrea Berton, chef stellato e imprenditore della ristorazione, demoralizzato per una comunicazione lacunosa e che non dà modo di poter lavorare come si potrebbe: «Il delivery e il take away sono un contentino, la caramellina che dai al bambino per tenerlo calmo. È un nulla nell’oceano: magari ti permette di lavorare un po’, ma nulla che ti porti un minimo di risultati. Di sicuro non giustifica tutti i costi che hai. Avrei di gran lunga preferito avere un elenco di regole certe da rispettare e un invito ad aprire solo quando a norma con queste regole. Io mi adeguo, prendo il tempo necessario, qualcuno viene a controllare che tutto sia come deve e poi possiamo riaprire. In sicurezza e secondo la legge, perché rispetti tutti i parametri. Io penso che così avrebbe più senso. Questo sarebbe un modo per iniziare a muovere le attività. E se questo non è previsto, almeno che prevedano un sostegno economico: ma non c’è nulla. Non puoi togliere tutto alle aziende. La cassa integrazione per i dipendenti non è nemmeno stata approvata, nel nostro settore: i dipendenti sono in cassa ma non sanno ancora se avranno i soldi e quando. Serve un’azione di sostegno alle aziende.»
Come vedi il delivery e il take away per ristoranti come il tuo?
«Noi proporremo dei box lunch e dinner con tutto freddo: prendi e mangi, sono pronti all’uso. Li avevamo già per le aziende, adesso possiamo svilupparli. Ma è chiaro che i piatti sono diversi da quelli che propongo al ristorante. Perché fare un delivery ‘normale’ con lasagne, arrosto e crespelle non la vedo una cosa accattivante per il mio cliente. Così invece diventa un concetto più originale. Bisogna lavorare sulle ricette e preparare cose che sai che si mantengono bene. Ma non è questo che ci salverà.»
E poi c’è l’apertura al 1 giugno: come sarà?
«Intanto, che sia chiaro: non pensiamo che da giugno ripartiremo a mille. Faremo 20 persone al giorno, forse. Gli stranieri non ci sono, gli eventi non ci saranno, i pranzi aziendali sono saltati. Prima andavamo a mille, all’improvviso siamo caduti. Ci vorranno anni perché il meccanismo che ci ha portato al successo di prima si riesca a innescare di nuovo.»
In più, c’è tutto il discorso delle nuove regole. Si sa già come sarà andare al ristorante?
«Facile dire “lavorate sui due turni”: ma chi lo dice non è mai stato in un ristorante. Come faccio a sanificare un tavolo mentre negli altri le persone sono ancora sedute? La sanificazione va fatta due volte al giorno, e a ristorante chiuso. Noi abbiamo già fatto tutti i test e una volta alla settimana si fa una sanificazione forte, dopo la quale il locale deve rimanere vuoto due ore. Poi, dopo ogni servizio, va fatta una sanificazione leggera, che comunque prevede che il ristorante sia vuoto per almeno 20 minuti. Come lo gestisco il doppio turno?
Per le altre norme, possiamo farcela: avremo una distanza minima tra i tavoli di 2 metri, metteremo massimo 3 persone su ciascun tavolo. Non è ben chiaro quante persone al massimo potranno stare allo stesso tavolo, ma quello lo capiremo. Tutto il personale di sala avrà la mascherina e dovrà ridurre al minimo tutti i contatti con il cliente al tavolo, non verseremo più acqua e vino, e stiamo ragionando sugli stuzzichini, troppi passaggi non sono possibili. Bisogna anche ripensare ai piatti, perché dovremo semplificare alcune procedure, visto che anche in cucina bisognerà aumentare le attenzioni e avere meno contatti possibili.
Ma per avere la certezza che tutto sia perfetto dovrebbero far fare il tampone a tutti gli addetti a contatto con il pubblico: questa sarebbe una cosa da mettere in atto. E poi, quando vai in un ristorante devi fidarti e noi dovremo fare in modo che il cliente si senta sicuro, ed essere bravi a evitare ogni movimento inutile, per ridurre al minimo il rischio. Alla fine ci adatteremo alla situazione, come abbiamo sempre fatto. Ma è difficile senza aiuti e senza sostegno.»
Berton ha fatto la perfetta descrizione del locale che verrà, come ha cercato di scoprire David Chang, lo chef americano che ha chiesto sui suoi social network di avere foto e testimonianze di locali già riaperti in Cina per poter avere qualche spunto sul da farsi. Lo scenario che si prospetta vede i clienti che mentre aspettano il tavolo non possono stare al bar all’ingresso, devono passare dalla prova termometro prima di sedersi e firmano una dichiarazione sanitaria con una penna sterilizzata. I camerieri indossano una mascherina e i clienti la devono tenere finché non arriva loro il cibo. Tutte le superfici devono essere disinfettate ogni mezz’ora e i tavoli devono essere lontani almeno un metro e mezzo l’uno dall’altro. E se ci sono difformità? Ai ristoratori tocca una multa di circa 6.500 dollari e sei mesi di reclusione. Ma nell’articolo del New York Times la ristoratrice cinese interpellata non è preoccupata: «I clienti hanno accettato i protocolli, tutti sono sinceramente più comprensivi, adesso. Sono felici di poter uscire e l’atmosfera li mette di buonumore. Alla fine, è ancora un ristorante.»