Il fattore SEcco perché l’uomo del Papeete impedisce alla Lega di ambire al governo

Il partito di Matteo Salvini in questa fase di guerra-dopoguerra non riesce a darsi una funzione specifica. È un gigante nelle sabbie mobili della sua stessa propaganda, e il suo leader è più un peso che una risorsa

Filippo MONTEFORTE / AFP

La Lega di Matteo Salvini in questa fase di guerra-dopoguerra non riesce a darsi una funzione specifica. È un gigante nelle sabbie mobili della sua stessa propaganda, un grande grumo di risentimenti che di fatto non incide nella vicenda politica, un ostacolo ad una normale dialettica democratica, incapace di competere con una maggioranza che pure non offre prove smaglianti di governo. 

Dopo i fasti della vecchia stagione liquefattisi sulla spiaggia del Papeete, Salvini infatti non ha saputo inventare un nuovo racconto, e l’avvento della super-emergenza del Covid19 ha peggiorato la situazione.

Ricordate gli sbarchi? I clandestini? La giustizia fai da te? Tutto un armamentario inservibile, desueto come le televisioni col tubo catodico. Affannosamente cerca nuove boutade polemiche e come un La Russa qualunque ieri ha sbeffeggiato il 25 aprile, tra l’altro denotando una preoccupante distanza dal sentimento popolare.

Resta certo la carta più pesante ma anche la più metafisica: la lotta contro l’euro, l’Europa, Bruxelles. Una contestazione priva di agganci con la realtà, visto che tutti capiscono che senza l’Europa e la sua moneta l’Italia chiuderebbe baracca e burattini, a cominciare da quel Nord oggi in ginocchio di cui Salvini vorrebbe l’esclusiva e dove nessuno si scandalizza se dobbiamo ricorrere ai prestiti: e i soldi sono in Europa. 

Con tutto lo scetticismo del mondo, che forse verrà persino incoraggiato se il vertice di oggi dovesse risultare improduttivo (o meglio: se verrà raccontato come tale), è a Bruxelles che gli italiani – dai lombardi ai calabresi – guardano. Ecco perché oggi la retorica antieuropea combacia con una visione antinazionale.

L’uomo del Papeete non sa fare opposizione perché la Lega al di là dei comizi del dottor Stranamore alias Alberto Bagnai non va. E al governo, principalmente a causa del pregiudizio antieuropeo di cui si è detto, non può ambire, pena l’isolamento internazionale del Paese che è l’ultima cosa che ci serve. 

La Lega non ha messo in campo nessuna proposta seria, in nessun momento, preferendo attaccare continuamente al solo scopo di fare rumore, secondo una linea che proprio dalle parti della cultura di destra si potrebbe definire “antipatriottica” se non “disfattista”, una linea che è risultata evidente a tutti quando Salvini ha esultato dinanzi al fallimento della trattativa sugli eurobond parlando di «una seconda Caporetto», simbolo della disfatta di fronte alla nemica Europa da cui bisogna uscire magari dando i «pieni poteri» a lui che solo pochi mesi fa, anche se pare una vita, li invocava da una spiaggia romagnola.

Il pur legittimo proposito di far cadere il governo mescolando l’attacco per la gestione della crisi sanitaria a quello per una eventuale “sconfitta” sul piano europeo è però confuso. Non ha sbocchi. Se non quello, pericoloso, di “prendere il potere” in nome di un sovranismo prodromico di un’involuzione autoritaria.

A causa di questo armamentario più vicino a Budapest che a Roma, capita alla Lega qualcosa di simile alla maledizione del Partito comunista ai suoi tempi: come allora esisteva il fattore K, come lo chiamò Alberto Ronchey, cioè la contiguità del Pci all’Unione Sovietica che impediva la sua ascesa al governo del Paese, così oggi il fattore S – come Salvini – di fatto blocca la possibilità che la Lega vada al governo. 

È probabile che di tutto questo si rendano conto i più avveduti fra loro, amministratori, sindaci, ex ministri: quanti rimpiangono una Lega di governo. Fra l’altro, nell’emergenza i leghisti più salviniani alla Fontana hanno rimediato una triste figura, uno più autonomo come Zaia ha brillato: c’è una lezione, in questo? Si pensa soprattutto a Giancarlo Giorgetti, sparito dai radar perché chiuso nella sua villetta di Cazzago a potare alberi e tagliare il prato, stufo di dare consigli inascoltati. 

Il più pragmatico dei leghisti – è noto – vorrebbe mettersi a disposizione di un governo diverso (lasciamo stare le formule e i nomi), di competenti, sufficientemente autonomo dalle forze politiche, in grado di fronteggiare lo tsunami economico che sta per abbattersi sul Paese. Un programma totalmente diverso da quello di Salvini che però potrebbe imporsi con la forza dei fatti e dell’emergenza e magari dietro l’impulso di un Quirinale sempre allertato sulle possibili evoluzioni della situazione di governo. Una prospettiva che rimetterebbe in campo una forza oggi paralizzata dal “fattore S”.