Il clima è teso, gli chef sono in crisi d’identità: con i ristoranti chiusi il loro ruolo è stato decisamente ridimensionato. Ci fanno compagnia con ricette preparate in diretta instagram, ci accompagnano con servizi di delivery sempre più fantasiosi, aggiungendo al pasto a domicilio messaggi vocali, video, foto e lettere di affetto.
Ma l’impatto e l’appeal che avevano sta man mano calando, e la loro stessa figura è stata messa in discussione. È a rischio estinzione? Ne dubitiamo. Siamo tutti un po’ chef, adesso: per volontà o per necessità abbiamo ripreso il controllo delle nostre vite gastronomiche e ci stiamo cimentando nel duro lavoro di chi cucina a colazione, pranzo e cena per tutta la ciurma. E abbiamo scoperto che ci piace (almeno nelle prime due settimane di reclusione). Poi abbiamo capito che è faticoso (tra la terza e la quarta settimana). Adesso, semplicemente, non ne possiamo già più della nostra vena creativa e non vediamo l’ora che sia qualcun altro a pensare al nostro sostentamento. E dopo il fuoco di paglia dell’innamoramento collettivo ai fornelli, solo un manipolo di convinti sostenitori della cucina fai-da-te resiste con i manicaretti sempre diversi, mentre gli altri si stanno sempre più votando al pollo arrosto, e stanno tornando ai surgelati prêt à manger.
Nel frattempo, loro, i nostri beniamini, stanno ripensando le loro cucine e soprattutto stanno riprogettando il ristorante stellato del futuro: che sarà profondamente diverso da come ce lo ricordiamo.
Nel senso che cambierà proprio l’approccio alla cucina, soprattutto nell’alta ristorazione. Innanzitutto per una questione tecnica: se – nelle cucine con le brigate – per finire un piatto servivano tre o quattro persone ravvicinate in uno spazio minimo, quel piatto andrà semplificato. Quindi meno estetica, e più sostanza. Meno particolari da aggiungere all’ultimo minuto e più concentrazione sull’essenza.
Ma anche meno finiture al tavolo: e un servizio di gran lunga privo di orpelli. Perché è in sala che il potenziale contagio va evitato, e quindi i ‘passaggi’ al tavolo del cameriere devono essere limitati all’indispensabile. Quattro vai e torna per gli stuzzichini? Aboliti. Salse versate con effetto scenografico da pregiate salsierine? Al bando. Degustazione del vino al momento dell’apertura e avvinamento dei calici? Eliminati.
E questa forzata clausura domestica e allontamento dai fornelli professionali come avrà inciso sull’estro degli chef? Dalle prime impressioni, parrebbero tutti orientati a tornare a ricette più autentiche, meno effimere, meno modaiole e ricondotte al puro gusto. Ho sentito persino qualcuno innamorato del prezzemolo, abolito dalle cucine stellate da un decennio almeno, se non sotto forma di estrazione.
Andrà profondamente ripensata anche la critica gastronomica: saremo più attenti a scegliere un ristorante per la sua promessa covid-free o per le sue stelle Michelin? E come vivranno, i critici ma anche i clienti, queste nuove modalità di non-rapporto con camerieri sempre più invisibili e sempre meno propensi a perdersi in leziosi storytelling dei piatti che stiamo per degustare?
Un modello intero da ripensare, dunque, ma anche una straordinaria opportunità di imparare a concentrarci nuovamente sulla sostanza prima che sulla forma. Sul contenuto prima che sul contenitore. E a pretendere che siano il piatto, il cibo, la materia, al centro della nostra nuova fame di bontà e bellezza.