Cucina apertaUscire a cena. Sì, forse, ma come?

Per consumare un pasto fuori casa, quando sarà possibile, dovremo fare i conti con la forma nuova che il ristorante assumerà nel mondo post emergenza

(Photo by Lillian SUWANRUMPHA / AFP)

Di “revenge spending” abbiamo letto in queste settimane a proposito della voglia pazza di andare al ristorante, acquistare – anche beni di lusso -, prenotare viaggi e fare shopping nei negozi di abbigliamento. Sarebbe la condizione post-lockdown nella quale già alcuni settori dell’economia e del commercio cinesi si stanno trovando. La spesa della vendetta come sfogo dello spirito e del portafogli, dopo mesi passati a limitare gli acquisti ai generi alimentari e alla tachipirina, e senza vita sociale. Un bel sogno per la ripartenza anche da noi, mentre l’Istat mette nero su bianco che il colpo all’economia sarà brutale (e che «i settori più a rischio sono quelli degli alloggi, della ristorazione, delle manifatture, della vendita al dettaglio e delle attività commerciali»), e mentre Fipe – la maggiore associazione di categoria del pubblico esercizio che rappresenta 300 mila imprenditori – non teme un lessico molto diretto: «Non possiamo restare chiusi ad oltranza o moriremo tutti per crisi economica».

Ecco, per quanto riguarda i ristoranti, diciamolo con concreta serenità: no, nel breve termine non succederà. O non sarà rilevante. La foga della cena fuori dovrà vedersela con la forma nuova che il ristorante dovrà assumere nel mondo post emergenza. Potrebbe essere un luogo non gradevolissimo da frequentare. Altro no: anche dovesse manifestarsi in parte questa voglia matta di assaltare i tavoli di trattorie e pizzerie, questo non salverà i ristoratori deboli duramente colpiti dallo stop.

Il secondo “no” si spiega facilmente. Dice Carlo Altomonte, economista della Bocconi: «Nel manifatturiero l’impresa può fare delle scorte, e quando scatta la risalita – anche repentina – dei consumi, si può recuperare parte dei mancati ricavi del periodo di stop. Nei servizi e nel fuori casa non ha nessun senso. Se non sono uscito a cena, non sono uscito a cena. Non la recupero più. Il calendario delle festività non torna indietro, e i consumi ad esse legati nemmeno». Dal lato consumatore può esseri una maggiore propensione al consumo come effetto delle limitazioni? Un “liberi tutti”, assalto agli acquisti? «Tutto da verificare».

Si torna al primo “no”. Alla specificità dei ristoranti e al nuovo approccio che avranno i consumatori nel post-emergenza Covid. Giacomo Pini, amministratore di GPstudios, è consulente di lungo corso di grandi aziende e associazioni di categoria, nei campi della ristorazione e del turismo. «Paura», dice subito. «Paura è l’emozione che abbatte i consumi. E i clienti ne avranno, perché sulla cena al ristorante grava l’incognita delle regole che dovremo tutti rispettare per mesi. Se saranno confermati distanziamento sociale e obbligo di indossare mascherine, il consumo servito è tutto da ripensare». Le immagini delle città asiatiche che “ripartono” con avventori seduti ai tavoli dei ristoranti a metri di distanza, soli e a faccia china sul piatto, le abbiamo viste tutti. Ci sono una marea di punti di domanda. «Il cameriere entra per forza nell’area di prossimità proibita: come ordineremo? Come ci porterà il piatto? Con guanti e mascherina? E come sarà organizzata la cucina?», si chiede Pini. C’è dell’altro: come dimostrerà, il gestore, l’avvenuta sanificazione di tutto – tutto – quello che viene portato in tavola, per tranquillizzare un cliente che prima non si curava di toccare un menu già passato in mani altrui e ora è incerto persino sul toccare o meno sua moglie in quarantena con lui da un mese e mezzo?

La verità banalissima è che la quasi totalità della nostra ristorazione ha valore per la sua dimensione sociale. Secondo l’istituto di ricerca The Npd Group, che ha analizzato il sentiment degli italiani, la ristorazione è il luogo deputato a questo, per eccellenza. Incontrarsi per mangiare fuori casa con amici e familiari è l’aspetto che agli italiani in quarantena manca di più, ma «l’82% è d’accordo con la chiusura e per il 77% la riapertura dei ristoranti in questo momento non è la priorità», recita il report.

«Se mense e fast food possono adottare misure come quelle preventivate – guanti, mascherina, distanze – trattorie, taverne, persino ristoranti gourmet e stellati, come possono sacrificare servizio e contatto?», dice Pini. Peraltro, gli sforzi per avvicinare il cliente sono stati il focus attorno a cui si è concentrata la gestione dei ristoranti negli ultimi anni.

Lo conferma il consulente: raccontare i piatti e la storia del locale, finire le preparazioni accanto al tavolo, instaurare un rapporto umano sono tutti consigli che di colpo diventano lettera morta. «Da sempre lavoriamo su come abbattere la solitudine di chi va a mangiare al ristorante per business, perché sono clienti con le stesse necessità della clientela leisure. Con la differenza che di norma sono soli. Adesso quella solitudine toccherà a tutti». Fino a quando? Se davvero servirà attendere un vaccino, «diciamo che prima di Natale non vedremo né fiducia nei consumatori né un ritorno del modello normale di consumo al ristorante».

Una voce ottimista, a ben cercare, si trova: è quella di Matteo Caroli, associate Dean della Luiss Business School, dove dirige il Master in Master in food & wine business. «Per quanta incertezza ci sia ora, lo stravolgimento del modello di ristorante sarà limitato nel tempo. Mesi difficili, forse di più, ma non per sempre. Torneremo alla socialità: per quanto enorme sia questo evento, non sta scritto da nessuna parte che il prossimo inverno i ristoranti non siano tornati normali. Dovessi chiedere oggi qualcosa io, in termini di aiuti pubblici, sarebbe un incentivo all’adozione delle tecnologie digitali. Sia quelle per la relazione con il cliente in sala, sia per la distribuzione. Il cuoco resterà il cuoco, ma attorno dovrà avere competenze nuove, e adotterà innovazioni che saranno utilissime anche dopo (e che già stavano cambiando il modello di business).

Intanto, però, resta da prendere le misure con il contesto e le restrizioni operative del breve termine. C’è tutta una serie di aspetti pratici che, a ben guardare, rischiano di stravolgere la sala come la conosciamo. Come parlare di distanziamento, se il tavolo standard di un ristorante è 80×80 cm? Quale locale potrà cambiare arredo in un colpo solo, o semplicemente sopravvivere con i coperti ridotti all’osso dalle regole di sicurezza? Eccola, un’altra parola pesante: sopravvivenza.

Spiega ancora il consulente Giacomo Pini: «Il 90% delle aziende della ristorazione italiana hanno meno di 10 dipendenti. Solo il 10% sono parte di gruppi medio-grandi. Il resto, la maggioranza, sono gestioni familiari, strutturalmente ancorate a modelli di business fragili. Sottocapitalizzazione e sopravvivenza appesa al cash flow mese per mese sono la norma, e una interruzione dalla sera alla mattina è un problema enorme e profondo. Ripensarsi per il dopo, anche. Perché si tratta di cambiare un modello di ristorazione secolare. Banalissimo: con costi in più e ricavi in meno, senza rete, il 30% salterà».

Torniamo a noi, e alla nostra futura e asettica cena al ristorante (almeno fino al vaccino, almeno fino a una cura, chissà). Matteo Berti, chef e direttore didattico di Alma, il più autorevole centro di formazione della cucina italiana a livello internazionale, immagina menu più corti e piatti ridisegnati all’insegna della semplicità. «Perché avremo meno mani a disposizione, dovendo impiegare brigate meno numerose per non ammassare personale. Quindi meno complessità nel piatto, meno passaggi e meno dettagli. Se posso permettermi di sfogliare il basilico togliendo la parte centrale del nervo, è perché ho personale a sufficienza. Se compro e sgrano i piselli giorno per giorno in cucina, è per lo stesso motivo. Questo tipo di operazioni salterà, come i “passaggi” di finitura». Vale per la ristorazione medio alta – laddove avrà gli spazi per tenere aperto nonostante il distanziamento – mentre peggio sarà per la ristorazione di massa, che, invece, non potrà più macinare i grandi numeri necessari alla sua sopravvivenza.

A uno nella posizione di Matteo Berti tocca anche ripensare la formazione in campo culinario. «Dovremo insegnare ai ragazzi che puntano a un lavoro nella sala uno stile di servizio completamente diverso, che includa precauzioni, distanza, meno giocosità e più seriosità. A monte, dovremo proprio ripensare la didattica, perché i 400 studenti che frequentano la scuola a regime non potranno seguire corsi a 40 alla volta, tutti in un’aula-cucina». Alma è anche stata molto veloce ad attivare la didattica a distanza per i suoi studenti dei corsi di cucina e pasticceria, ma una cosa è la video lezione, un’altra la dimostrazione pratica a fornelli accesi.

Era diventato un sogno, lavorare nelle brigate dei ristoranti. Quello di tanti ragazzi, complice la grande attenzione mediatica che chef e cuochi hanno avuto negli ultimi 15 anni. Tutto finito, con questo shock? «Ha visto che nei supermercati il lievito compresso è andato a ruba? La gente a casa si è attaccata ancora di più alla cucina, alla passione per la trasformazione delle nostre materie prime. Mi ha colpito molto, quindi rispondo di no, non credo che questo farà morire il sogno». Semmai, sarà più dura (a dir poco) avere opportunità di lavoro nel settore, nel breve e medio termine.

Al cuoco rimane l’imperativo di fare un doppio sforzo: di resistenza e di ripensamento. «Per anni abbiamo visto la tecnologia come un qualcosa che poteva allontanare il cliente. Cominciamo a credere che, invece, proprio la tecnologia possa salvare il cuoco. Immagino un tablet sul tavolo, un video che racconta i piatti, un sistema per ricevere la comanda che renda indipendente il cliente. Il quale vorrà la sua intimità, e avrà le sue pretese di igiene». Dopo il “siamo tutti critici gastronomici”, il nuovo must sarà l’approccio al tavolo con il kit del piccolo chimico, per valutare la carica virale dell’oliera? Che il dio delle cucine ce ne scampi.

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