Dopo che a fine marzo il Parlamento ungherese ha concesso pieni poteri all’esecutivo di Viktor Orbán, è riesploso il dibattito sulla necessità di espellere Fidesz, il partito del premier magiaro dal Partito popolare europeo (Ppe). Il presidente della formazione dei cristiano-conservatori all’Europarlamento Donald Tusk, ha dichiarato che la prossima riunione del Ppe, forse a settembre, dovrà esprimersi sul tema. «Non dobbiamo scegliere tra sicurezza e libertà, ma garantire ai cittadini entrambe», ha affermato Tusk.
L’ex presidente del Consiglio europeo caldeggia la cacciata del leader ungherese anche per colpire i propri nemici in patria. Pur appartenendo a un’altra famiglia politica, gli ultra-conservatori del Pis, che guidano la Polonia dal 2015, vedono in Orbán un modello e un alleato. Indebolire il fronte dei sovranisti europei è fondamentale per galvanizzare il partito di Tusk, quella Piattaforma civica che si avvia verso una probabilissima débâcle alle elezioni presidenziali di metà maggio, dove secondo i sondaggi verrà riconfermato il presidente uscente Andrzej Duda, in quota Pis.
Quella dell’ex premier polacco non è una voce nel deserto. A inizio aprile molti dei partiti che aderiscono al Ppe hanno pubblicato una lettera aperta invocando l’espulsione di Fidesz. Per bocca della capogruppo Aura Salla, la compagine finlandese ha anche lanciato l’idea di congelare i fondi Ue allocati all’Ungheria, uno dei pochi provvedimenti in grado di impensierire davvero gli orbaniani. A questo appello non hanno tuttavia aderito i membri più importanti, in termini di nazionalità e numeri, come italiani (Forza Italia), spagnoli (Partido popular) e francesi (Les Républicains). Soprattutto, non ha aderito la Cdu tedesca (Christlich Demokratische Union Deutschlands), la formazione più numerosa e potente del Parlamento europeo.
Fidesz è stato sospeso dal Ppe un anno fa, quando durante la campagna elettorale per le elezioni europee erano apparsi su alcuni manifesti elettorali del partito ungherese degli attacchi a esponenti del suo stesso eurogruppo: come il presidente della Commissione Ue uscente Jean-Claude Juncker e il capogruppo Manfred Weber, all’epoca indicato come candidato conservatore alla presidenza della Commissione (Spitzenkandidat).
La sospensione era stato un ammonimento esplicito a Orbán di non proseguire nel processo di smantellamento delle istituzioni, come documentato dal report Sargentini nel 2018. Anche nel 2020 ci sono state violazioni dello Stato di diritto, ma l’espulsione resta un’ipotesi poco realizzabile.
Dall’appartenenza, pur nominale, alla più folta famiglia politica europea, Fidesz guadagna influenza e prestigio. Un esempio è stata la nomina di un proprio esponente, Olivér Várhelyi, a Commissario europeo per la politica di vicinato e i negoziati di allargamento, un tassello importante della sempre più manifesta proiezione di Budapest nell’area balcanica. E potersi fregiare della tessera del partito faro dei cristiano-democratici in Europa corrobora l’immagine di forza moderata cui Fidesz continua a rimanere legata per differenziarsi, in patria, dalle altre forze di destra – lo Jobbik in primis – di cui condivide sostanzialmente le idee, ma che non sono mai state riconosciute come moderate, né tantomeno cristiane. Per quanto fuori possa sembrare grottesco, in Ungheria Fidesz si pone spesso e volentieri come “argine agli estremismi”.
Dietro la retorica incendiaria, gli orbaniani sono consapevoli che non c’è vita per loro fuori dal Ppe. Se fossero esiliati in una delle due forze sovraniste presenti all’Europarlamento (Identità e democrazia e Partito dei Conservatori e riformisti europei), i loro margini di manovra si ridurrebbero notevolmente. Si troverebbero inoltre in compagnia di alleati che, a differenza loro, difettano di visione strategica e nemmeno sono al governo nei rispettivi paesi. A eccezione ddel Pis polacco o gli slovacchi di Sme Rodina e Sas.
Finora il Ppe non è passata alle vie di fatto per due ragioni. Il primo è il peso numerico della truppa ungherese che permette di tenere ampia la distanza con il secondo eurogruppo, i socialisti e democratici. Il secondo motivo riguarda il parere diffuso che tenere Fidesz dentro il campo cristiano-conservatore permetta di disinnescarne la radicalità.
Queste però sono due ragioni che non sembrano così decisive. Perché a guardar bene, in termini di equilibri politici, l’apporto dei dodici parlamentari di Fidesz non è decisivo. Nonostante un risultato deludente alle ultime europee, il Ppe può ancora contare su una solida maggioranza di 187 parlamentari, con cui stacca agevolmente il secondo gruppo più nutrito, l’S&d (147). L’unica ricaduta rilevante di un’eventuale espulsione di Fidesz potrebbe verificarsi qualora questa mossa innescasse un effetto domino, portando altri membri riottosi ad abbandonare la casa del centro-destra europeo, opzione al momento poco verosimile.
Le forze dichiaratamente sovraniste, come il Rassemblement national francese o la Lega italiana, sono già membri dei due schieramenti di destra radicale dell’emiciclo. Quanto alla convinzione che il giogo del Ppe basti a imbrigliare Orbán, i fatti hanno già ampiamente confutato questa teoria: negli ultimi anni il deterioramento dello Stato di diritto in Ungheria è parso inesorabile.
Le ragioni per cui molti soggetti non sono eccessivamente turbati da un’Ungheria a trazione sovranista si annidano nella Realpolitik e nell’economia.
L’Ungheria, tolti alcuni ambiti molto mediatizzati come accoglienza dei rifugiati e politica estera, è un compagno di strada molto più fedele alla linea di quanto si immagini. Su molti dossier di vitale importanza per i cristiano-conservatori, Budapest vota sempre come deve votare. La tedesca Ursula Von der Leyen, per esempio, è stata eletta a presidente della Commissione europea anche grazie al supporto accordato dai bistrattati ungheresi.
Sul versante economico, il sistema Orbán non è redditizio solo per imprenditori autoctoni vicini al premier, come ha dimostrato una recente inchiesta del New York Times sull’utilizzo dei fondi Ue allocati al settore dell’agricoltura, ma anche per svariate aziende straniere. Ad esse vengono garantiti sia un trattamento fiscale favorevole che manodopera qualificata a salari contenut
Ne hanno approfittato molti grossi operatori dell’automotive tedesco, come Audi, Mercedes o Bmw, nomi che la Cdu non può verosimilmente permettersi di ignorare. Provvedimenti clamorosi come la cosiddetta “legge schiavitù”, che ha reso sostanzialmente obbligatori gli straordinari (pagabili anche a tre anni), sono musica per le orecchie delle multinazionali presenti in Ungheria.
In breve, il rapporto che Budapest intrattiene con l’Ue, o perlomeno con tanti dei poteri che la compongono, è molto più armonioso di quanto appaia. Si delinea sempre più nitido un modus vivendi capace di accomodare le esigenze di più attori. Come riassume il ricercatore Stefano Bottoni nel suo recente libro dedicato all’eclettico premier magiaro, «Il governo ungherese non è contro l’Unione Europea, bensí la accetta in una variante scontata, priva dello Stato di diritto e di molte libertà civili, in cambio di limitati margini di sovranità politica. (..) Orbán usa gli strumenti offertigli dal sistema internazionale per mercanteggiare con un’Europa che si è abituata alla presenza di una controparte scomoda ma ritenuta controllabile».