Il coronavirus ha cambiato le nostre abitudini portando nelle nostre case il lavoro, la scuola, la palestra e tutto il resto. I luoghi pensati per accoglierci nel tempo libero, dopo una lunga giornata in ufficio e magari lunghi spostamenti in macchina o con i trasporti pubblici sono improvvisamente diventati più di appartamenti, senza essere pensati per questo. Per molti il cambiamento potrebbe essere permanente.
Il mondo dell’architettura e del design prova a intercettarlo «ascoltando la società e affrontando lo scenario che i nuovi comportamenti impongono», come ha scritto il presidente nazionale dell’Associazione per il disegno industriale, Luciano Galimberti.
Si immaginano soluzioni innovative, fantasiose, guidate dall’idea che potremmo aver bisogno di modulare lo spazio che abitiamo in base a diverse esigenze. Lo si intuisce anche dalle parole dell’architetto Stefano Boeri: «Immagino un futuro prossimo composto di spazi adattabili, di arredi flessibili, di case capaci di cambiare nel corso della giornata: camere che sono da letto di notte e studi di giorno o letti che diventano tavoli».
È una visione ambiziosa verso cui tende l’intero settore: flessibilità, possibilità di modulare lo spazio abitativo e riadattarlo in base alle esigenze.
Ma per trovare risposte a trasformazioni così radicali nello stile di vita ci vuole del tempo, occorre un lavoro di ricerca e capacità di innovazione. Un impegno che non permette soluzioni immediate. Lo spiega a Linkiesta Giorgio Tartaro, giornalista che si occupa di progetti per la comunicazione dell’architettura e del design: «Le prime proposte concrete che abbiamo visto e sentito sono abbastanza goffe, tentativi che faranno poca strada. Ma è normale, cambiamenti come quelli che si stanno immaginando hanno tempi molto più lunghi».
È un discorso che si può fare anche per altri segmenti di mercato: le ingombranti barriere in plexiglass che si vedono da settimane in tutti i render, indifferentemente al ristorante, in farmacia o in spiaggia, possono essere delle soluzioni temporanee, non il nuovo modo di organizzare aree aperte al pubblico.
Alcune soluzioni efficaci di contrasto al coronavirus sono già sul mercato: gli impianti di domotica eliminano il contatto con tanti device casalinghi; l’insonorizzazione di alcune stanze permette a più persone di lavorare, ascoltare una lezione, fare esercizio nello stesso momento; ci sono anche armadi che disinfettano gli abiti con cui siamo andati a fare la spesa o una passeggiata.
Sono soluzioni costose, dirette a un determinato target, e non riproducibili su larga scala. In alcuni casi l’abitazione stessa è già una soluzione. Il virus non è molto democratico, impone prima di tutto distanziamento sociale e attenzione ai contatti con persone e superfici: una casa grande, con più stanze e molti comfort permette di resistere a lunghe fasi di isolamento e magari lavorare con la stessa efficienza di una normale giornata d’ufficio.
Si è parlato molto, ad esempio, di un’inversione di tendenza che porterà una riduzione degli open space, dei loft, ma anche delle cabine-armadio. «È probabile che diventi sempre più importante riuscire a ritagliare uno spazio esterno dove possibile. Le nuove costruzioni è più facile immaginarle con una finestra o un balconcino in più e con una veranda in meno», dice Tartaro. Perché se aumenta il tempo speso tra le mura di casa anche una manciata di minuti di luce naturale può fare la differenza.
Ma sono cambiamenti che interesseranno soprattutto le (poche) nuove costruzioni. Più difficile immaginare una dose massiccia di ristrutturazioni per stravolgere l’organizzazione degli spazi: sono impegni che richiedono tempo e soldi, difficile immaginarli su larga scala.
Sulla possibilità di vedere una trasformazione tanto rapida è scettico anche l’architetto e designer Piero Lissoni: «Non credo che spazi e arredamento potranno cambiare in modo così radicale, ma potrebbe cambiare la disponibilità delle persone a investire per avere un’abitazione più dignitosa. Mi auguro quindi che la casa torni ad essere una priorità».
In un primo momento, dunque, è più probabile che ci si limiti a riorganizzare gli ambienti con sistemi fai-da-te per ottenere quello spazio che può essere adibito a palestra o studio o quel che serve.
D’altronde molte aziende del settore sono in difficoltà e potrebbero scegliere di investire su una produzione più affidabile anziché sperimentare con prodotti di cui non si conosce a pieno lo sbocco sul mercato. «Il lockdown – dice ancora Lissoni – ha impattato in maniera violenta sul lavoro e sul mercato. Nello specifico per le aziende del mondo del design ha voluto anche dire saltare il Salone del Mobile, la più importante fiera del settore, ma anche dover chiudere in questi mesi i negozi in tutto il mondo, e ora a doversi riorganizzare per poter lavorare in condizioni di sicurezza».
Un concetto che approfondisce il presidente di FederlegnoArredo Emanuele Orsini: «Abbiamo bisogno soprattutto che riparta l’intera filiera. Tutti noi abbiamo passato molto più tempo del solito a casa, e adesso abbiamo la necessità di integrare o cambiare facilmente l’arredamento domestico: consentire gli acquisti sarebbe un beneficio per tutti».
La produzione italiana di mobili è nota soprattutto per le sue caratteristiche di qualità, flessibilità e customizzazione: le soluzioni arriveranno se il mercato le richiederà, anche per una diffusione di massa. Prima di poter immaginare grandi cambiamenti nelle nostre case, però, ci sarà da aspettare ancora un po’.