Il giorno in cui a qualcuno verrà in mente di stilare la classifica dei commissari europei più criticati del secolo, due candidate la faranno verosimilmente da padrone: la baronessa britannica Catherine Ashton, e l’ex enfant prodige del centrosinistra italiano Federica Mogherini. Tratti in comune: pochi. Tranne quello di aver condiviso l’onore (poco) e onere (molto) di ricoprire la carica di Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza dell’Unione Europea – dal 2009 al 2014 la prima, nel lustro successivo la seconda. A entrambe opinionisti e osservatori di ogni estrazione politica non hanno lesinato critiche impietose, e non solo per la frustrazione di dover leggere l’etichetta fino in fondo.
Fosse il vertice annuale con la Russia o l’ultima escalation tra Israele e Hamas, la guerra in Siria o la repressione in Turchia, non c’era occasione in cui alla “ministra” di turno non venisse addebitata da ogni angolo l’accusa di non riuscire a far sentire abbastanza “la voce dell’Europa”.
Giustificato o ingeneroso, quel regolare coro di critiche era il riflesso di un unico, diffuso sentire comune: che l’Unione europea, l’organizzazione regionale più ricca e integrata al mondo, avesse tutte le carte in regola per aspirare a incidere davvero negli affari internazionali.
Il mondo là fuori – così pareva – aspettava il momento in cui l’Unione sarebbe finalmente diventata adulta, una potenza a tutto tondo in grado di imporre i suoi interessi e valori nel resto del pianeta.
Non sono passati neppure sei mesi da quando Mogherini ha passato il timone della politica estera allo spagnolo Josep Borrell, e quella visione pare già una pagina di storia ingiallita. La pandemia ha cambiato tutte le carte in tavola, accelerando processi epocali.
«La crisi ha messo in evidenza la vulnerabilità degli Stati e delle nostre società di fronte a una globalizzazione incurante delle proprie conseguenze. Il che ora implica rendere l’Europa più autonoma sul piano strategico. Nel breve periodo, ciò significa che dovremo ridurre la nostra dipendenza nei settori sensibili» ha detto domenica Borrell al Journal du Dimanche.
L’elefante nella stanza, cui si allude pur senza menzionarla esplicitamente, è la Cina. A molti, e certamente a Washington, non è sfuggita la campagna diplomatica senza precedenti che la nuova superpotenza ha lanciato in Europa.
Pechino ha fatto arrivare medici, mascherine e materiale sanitario vitale, ma anche adeguate pressioni affinché la narrazione fosse quella della nazione amica e far scordare a tutti da dove fosse partita la pandemia. Via libera dunque a operazioni sui social network per esaltare la risposta cinese al coronavirus, e mettere in cattiva luce quella europea e statunitense. E guai a denunciare le ingerenze.
Nelle scorse settimane ha fatto scalpore il caso del rapporto Ue sulla disinformazione “annacquato” proprio su pressione di Pechino. Peccato che pochi giorni fa la diplomazia europea ci sia ricascata. In occasione del 45esimo anniversario delle relazioni bilaterali gli ambasciatori dei 27 hanno concordato di inviare al quotidiano nazionale in lingua inglese, il China Daily, una lettera congiunta di amicizia e collaborazione.
Ma il testo meticolosamente elaborato, come ha rivelato la Süddeutsche Zeitung, è uscito solo dopo adeguato “esame” della censura di Stato: dimagrito di un passaggio indigesto al Partito. Un piccolo intervento chirurgico, ma sufficiente a veicolare il messaggio storico: gli equilibri in campo sono cambiati.
Fosse solo questione di parole, il dibattito potrebbe anche restare confinato agli ambienti diplomatici. Ma dietro le dispute linguistiche, come indicano l’allarme lanciato da Borrell c’è una preoccupazione più concreta: che il tracollo economico lasci campo aperto all’ingresso di capitali stranieri ostili. Quelli che non mancano alla Cina, che con la sua Belt and Road Initiative ha disegnato il più ambizioso progetto di espansione geo-economica del secolo.
Un esempio su tutti: il trasporto marittimo. Già nel 2010, nel pieno della sua crisi del debito, la Grecia si vide costretta a far cassa cedendo il 51 per cento del porto del Pireo a Cosco, il colosso cinese della logistica marittima. Sembrava un caso isolato, non lo era.
Negli anni successivi – come ha fotografato l’Istituto Olandese di Affari Internazionali – Cosco si è aggiudicato il 51 per cento dei terminal di Valencia e Bilbao; quote di minoranza in quelli di Anversa, Rotterdam e Las Palmas; e il 90 per cento del controllo del porto belga di Zeebrugge.
In Italia, è cinese il 49,9 per cento di quello di Savona-Vado Ligure, ma Pechino non fa mistero di corteggiare anche i poli cruciali di Genova, Venezia e Trieste. Che cosa succederebbe se, indeboliti dalla crisi, finissero sul mercato anche “gioielli nazionali” europei in settori strategici come l’energia o la difesa, i trasporti o le telecomunicazioni?
A rendere il clima ancor più tetro, è arrivata la rivelazione dei servizi segreti belgi che tra il 2010 e il 2016 spie cinesi avessero messo nel mirino l’industria biologica del Paese, così come il gigante farmaceutico inglese GlaxoSmithKline. A chiosare sui timori di aver prestato troppo il fianco alle mire cinesi è stato lo stesso Borrell nella citata intervista: «Sulla Cina negli scorsi anni l’Europa è stata un po’ ingenua».
Dobbiamo prepararci a diventare tutti sudditi di Xi Jinping, dunque? «Dopo la crisi l’Europa dovrà trovare una nuova collocazione internazionale – risponde Nicoletta Pirozzi, responsabile del programma Ue dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) – Gli attacchi dall’esterno ci danno la misura dell’emergenza, e l’impatto politico non va sottovalutato. Ma non dimentichiamo che la crisi ha indebolito non solo l’Ue ma anche la Russia e la Cina, e che l’Europa può prendere diverse contromisure per difendersi».
Per evitare che aziende strategiche finiscano nelle mani sbagliate, i governi dell’Ue avevano in effetti adottato già un anno fa un regolamento per istituire un meccanismo comune di screening sugli investimenti stranieri.
Sarebbe dovuto entrare in vigore il prossimo ottobre, ma la crisi ha accelerato il processo: così la Commissione ha raccomandato agli Stati di fare fin da subito «pieno uso» di tutti gli strumenti a disposizione per prevenire l’ingresso di capitali ostili. Un invito che i governi hanno accolto all’unanimità.
E con la stessa logica, nell’orizzonte internazionale, si spiega il lavoro febbrile delle ultime settimane delle istituzioni Ue per facilitare un accordo tra i governi in grado di tenere in piedi, e far riprendere a camminare appena possibile, le economie dell’area euro.
Solo una risposta “eccezionale” e unitaria, è il ragionamento di Commissione e Banca centrale europea, può salvare l’Europa dalla resa economica, cui non potrebbe che seguire quella politica. Ecco perché gli strumenti di sostegno ad hoc in arrivo per combattere l’emergenza non vanno intesi come un “aiutino” ai Paesi più vulnerabili – né nelle capitali nordiche, né dalle parti di casa nostra – ma come una mossa strategica per preservare tutta l’Unione.