La comunicazione al tempo del Covid ci ha insegnato almeno una cosa: che siamo nella società dell’eccesso mediatico. Le informazioni che ci sono arrivate tutti i giorni, tutti i minuti, tutti i secondi sono state eccessive e perciò spesso inutili: impossibile distinguere fra parole e frasi a effetto, giuste o sbagliate, emozionali o di cronaca, narrative o descrittive. In parte ciò era evitabile. Se avessimo imparato qualcosa, da questo punto di vista, dalle precedenti pandemie, forse l’informazione sarebbe stata più sottile (in termini quantitativi) ed efficace.
Però l’eccesso informativo va distinto dal bisogno di rivelare le sensazioni, le emozioni, lo sgomento, le paure che ha invece trovato definizione nell’immediato. Cioè non nella parola, ma nelle immagini. Un bisogno che già Aristotele descriveva così: «Nell’anima razionale le immagini sono presenti al posto delle sensazioni, e quando essa afferma o nega il bene o il male, lo evita e lo persegue. Perciò l’anima non pensa mai senza un’immagine».
Da sempre l’uomo sente l’esigenza di rappresentare ciò che vive; attraverso l’arte, la parola, la scrittura esprime la ricerca del significato del proprio essere nel mondo. L’uomo è abituato ad apprendere grazie a esse sin da prima dell’invenzione della scrittura. I concetti vengono ricordati e memorizzati meglio se presentati sotto forma di immagini. L’utilizzo di immagini per raccontare storie e avvenimenti nasce da processi cognitivi che sono sempre esistiti nella mente umana. Comunichiamo per immagini.
La ragione fondamentale per cui ognuno di noi coltiva l’impulso più o meno intenso a narrare è che tramite la narrazione è possibile attribuire un senso al filo di accadimenti e informazioni che segna la nostra esistenza. Narrare, dunque, per selezionare, ordinare e tessere trame di immagini, esperienze, conoscenze, emozioni e pensieri.
Nello scenario attuale le forme (ma pure i contenuti) della narrazione appaiono condizionate dal moltiplicarsi dei mezzi messi a disposizione dalle nuove tecnologie di comunicazione, che hanno trasformato la vita quotidiana in una persistente e insistente opera di produzione, trasmissione e archiviazione di storie, documenti, immagini. E l’immobilità di questo periodo lo ha reso ancora più evidente. Un insieme di micro-narrazioni che ritmano la nostra giornata via web, email, messaggistica istantanea, chiamate, videochiamate.
Così nell’era Covid anneghiamo in parole, storie, commenti, tratti, video. Non riusciamo a sintetizzare-tradurre-fissare il momento che stiamo attraversando in una sola frase. Però l’immagine si impone per la sua forza immediata, quasi trascendente rispetto alla volontà e possibilità di comunicare un concetto. Perché, con René Char: «Solo gli occhi sono ancora capaci di gettare un grido».
E forse l’immagine riesce in questa occasione in ciò che per la parola è impossibile: comunicare l’immenso vuoto. Un ossimoro comunicativo che spiazza la parola. Ma non l’immagine. Ed ecco dunque che tutti ricorderanno il Papa nella Piazza San Pietro vuota. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella davanti all’Altare della Patria in uno scenario deserto. E forse più di tutto, l’immagine che probabilmente descriverà in futuro questo momento è quella della città di Whuan vuota. Le strade deserte. Hiroshima, Berlino, Dresda: la tragedia che distrugge tutto. E lascia il vuoto. Ecco, l’immagine è piena di vuoto. Il mondo è stato pieno di vuoto. Vuoto: una parola che la parola scritta non può descrivere con altrettanta efficacia. Nell’era della comunicazione permanente l’assenza diventa quasi incomunicabile. Se non attraverso le immagini.
Siamo nell’epoca delle multi-narrazioni, sempre e immediatamente disponibili, in qualunque tempo e luogo ci si trovi. Ne consegue una mutazione radicale di concetti come memoria, tempo, spazio, oltre alle modalità con cui vengono a stabilirsi le relazioni tra gli individui.
Guardando le immagini che hanno segnato la storia e soprattutto quelle tradotte in opera pittorica, ho visto fatti, situazioni, emozioni, vissuti che entrano in punta di piedi o prepotentemente nel farsi delle opere e, ancor prima, nell’immaginario collettivo. Momenti sottilmente o imperiosamente epocali, che marcano un confine tra un prima e un dopo. Pensando a parole chiave come “attesa” e “solitudine” che certamente connotano questo momento, le immagini sono davvero molte dove il nervo scoperto è l’incertezza. L’inconsistenza del presente quando il passato immediatamente vicino era radicalmente diverso. Così è stato oggi. Le strade vuote hanno dato piena rappresentazione di quanto sia fragile il presente. Il presente che nella civiltà della comunicazione è il flusso continuo delle parole. Che può essere fermato in un’immagine.
articolo tratto dal blog behindreputation
Lorenza Pigozzi
Adjunct Professor LUISS Business School