Società chiusaNon lasciamo che gli Stati mantengano per anni le frontiere nell’area Schengen

Marie De Somer, analista dello European policy center: «Bisognerà monitorare gli Stati affinché eliminino controlli e posti di blocco senza procrastinarli oltre il dovuto per ragioni sanitarie o di ordine pubblico come dopo il 2015»

Afp

A Baarle-Nassau, un sonnacchioso villaggio a 55 chilometri da Anversa, dopo la metà di marzo comprare una bambola è diventata un’impresa. A tre giorni dall’inizio di primavera, le centinaia di piccole croci bianche su cui i suoi abitanti erano abituati a passeggiare senza neppure farci caso hanno ripreso d’un tratto corpo e valore: di qua il Belgio, di là i Paesi Bassi. Quando il 18 marzo Bruxelles ha decretato la chiusura di tutte le attività per contenere il Covid-19, mentre i vicini olandesi optavano per un approccio soft di responsabilità diffusa, i grandi magazzini Zeeman che sorgono su una delle decine di punti di confine della cittadina hanno dovuto eseguire le direttive.

La parte “olandese” è aperta, con una buona scelta di articoli di abbigliamento, mentre è inaccessibile quella oltre la linea immaginaria di confine, compresi i giocattoli. Sarebbe materiale per un manuale di curiosità sulle enclave, o per l’ennesima barzelletta dei francesi sui cugini belgi, se quello scricchiolio non avesse indicato la tempesta in arrivo: il tracollo, sotto i colpi della pandemia, del sistema Schengen.

Prende il nome di un’altra illustre cittadina di confine – tra Francia, Germania e Lussemburgo – quell’Accordo pensato alla metà degli anni ’80 ed entrato in vigore dal 1995 che ha incardinato il principio simbolo, rivoluzionario, dell’Europa unita: la libertà di circolazione all’interno dell’Unione per tutti i suoi cittadini, oltre che per merci, servizi e capitali. Più semplicemente, la scomparsa delle frontiere.

Ma da quando prima l’Italia, poi la Francia, la Spagna e il resto d’Europa si sono ritrovati aggrediti dal nemico invisibile, il sogno dell’apertura si è trasformato in un incubo per i governi. Dall’11 marzo, quando Vienna ha deciso la chiusura del Brennero, un domino inarrestabile ha riportato l’orologio d’Europa indietro di trent’anni: code ai confini, ispezioni, timbri, respingimenti e ordini di quarantena.

L’elenco delle notifiche di «temporanea reintroduzione di controlli» inviate dai governi alla Commissione – verso alcuni Paesi o urbi et orbi, via terra e dai cieli oppure dal mare, per pochi giorni o lunghe settimane – fa venire il mal di testa: solo da allora se ne contano 67. 

Un male necessario per tentare di arrestare la corsa del virus, indubbiamente, così come le altre restrizioni “interne” imposte dalla maggior parte dei governi. Ma che rischia di avere effetti deleteri di lungo periodo. Sull’attitudine dei cittadini – come ha documentato Anais Ginori su La Repubblica raccontando il riemergere di paure e pregiudizi d’altri tempi al confine franco-tedesco.

Ma anche su quella degli Stati, già avvezzi dopo la “crisi dei migranti” del 2015 a tradire lo spirito di Schengen mantenendo i controlli di frontiera con pretesti d’ogni genere, come ricostruito su Linkiesta da Martina di Pirro. Siamo sicuri, insomma, che dopo estetiste, bar e ristoranti, i governi saranno pronti a riaprire anche le frontiere? 

«C’è un certo, e giustificato, allarme sulla questione: mai dall’entrata in vigore del Trattato si era assistito alla reintroduzione di controlli su così vasta scala», riflette Marie De Somer, senior analyst e responsabile del programma Migrazioni e Diversità dello European Policy Center, che vincola il successo del ripristino di Schengen a due parametri ben precisi. «Non appena la situazione lo consentirà, sarà essenziale monitorare da un lato che gli Stati eliminino controlli e posti di blocco senza ingiustificati ritardi, ossia senza procrastinarli oltre il dovuto per ragioni sanitarie o di ordine pubblico come dopo il 2015; dall’altro che lo facciano con un approccio coordinato – al contrario di quello del tutto caotico e unilaterale con cui le restrizioni sono entrate in vigore». 

Il problema è che le istituzioni Ue, su questa come su altre materie, hanno prerogative limitate. La Commissione può inviare solo comunicazioni e linee guida, non imporre agli Stati decisioni vincolanti. E in assenza di sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione europea che definiscano chiaramente quali siano le «minacce all’ordine pubblico o alla sicurezza interna» che giustificano la sospensione di Schengen, i governi possono di fatto procrastinare le misure restrittive a oltranza senza timore di incorrere in sanzioni. Ecco perché la vigilanza “dal basso” dei cittadini è altrettanto importante.

A Bruxelles, che dopo i primi giorni di disorientamento ha preso le misure della crisi, il problema è noto. Anche perché oltre alla mobilità di studenti, turisti e lavoratori, dalla porosità dei confini europei dipende anche il funzionamento del mercato unico più integrato al mondo.

Ecco perché già a metà aprile, in vista delle “riaperture” dei settori produttivi in molti Stati membri, la Commissione ha messo nero su bianco una prima roadmap per guidare la rimozione dei controlli ai confini sulla base di parametri comuni. Per evitare che anche l’uscita dallo stato d’eccezione avvenga in ordine sparso, con Paesi che mantengono le frontiere irragionevolmente chiuse, o perfino che alcuni le aprano troppo presto. «Le restrizioni di viaggio e i controlli dovrebbero essere rimossi non appena la situazione epidemiologica dei Paesi confinanti converge sufficientemente», raccomanda il piano della Commissione. Nuove indicazioni sul tema dovrebbero seguire la prossima settimana. 

Una volta assicurata la riapertura delle frontiere, resta da capire se saremo noi a volerle attraversare. Già, perché se Schengen è entrata a far parte del nostro linguaggio quotidiano, non è soltanto per gli accordi tecnici tra ministeri degli Interni, ma per la vera e propria visione del mondo che quel Trattato ha plasmato.

Per chi è nato e cresciuto dagli anni ’90 in poi, Europa ha sempre voluto dire seconda casa (ops): quel posto dove poter fare incursioni di un week-end decidendolo una settimana prima, andare a studiare per tre mesi o tre anni, e poi cambiare ancora Paese, cercare un nuovo lavoro o un nuovo amore. E le generazioni precedenti, incredule, si sono presto accodate.

Dopo due mesi con gli occhi fissi sullo stesso palazzo, i piedi fermi a un isolato e l’ansia di sfiorare qualsiasi nostro simile, recupereremo mai quella dimensione? «Non sarà semplice e ci vorrà tempo – risponde De Somer – ma se c’è qualcosa che questa crisi ci ha mostrato è che chiunque prima non vi desse importanza, e specialmente i più giovani che non avevano mai conosciuto il mondo “pre-1995”, ora riscopre fino in fondo il valore dell’assenza di frontiere». 

Tra poco più di un mese, il 19 giugno, scoccheranno i trent’anni dalla firma della “prima” Convenzione di Schengen tra Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo e Germania (Ovest). Virus permettendo, la data ideale per tornare ad allargare i nostri orizzonti.

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