Da oggi la Fase Due traghetta il Paese dal modello per così dire “cileno” – vietato quasi tutto, multe per tutto, sorveglianza su tutto, droni nei cieli per segnalare i runner – al modello svedese della libera auto-gestione di sé, delle misure di sicurezza, delle regole contro la pandemia.
Contagi e morti, in alcune regioni, sono ancora quelli dell’era del lockdown ma non importa: l’urgenza del governo, e più ancora quella dei Governatori, è scrollarsi dalle spalle il fardello di poteri assoluti diventato improvvisamente pesantissimo: se andrà male, se gli indici torneranno a salire, si potrà incolpare chi non si lava le mani o chi indossa mascherine fuori norma.
Roma potrà prendersela con Milano e Torino. Milano e Torino potranno prendersela con Roma. Napoli con tutti. La catena di decisioni e vertici notturni che ha portato al Dpcm sulla riapertura è così confusa che ciascun soggetto potrà dirottare altrove le responsabilità e salvarsi l’anima, o quantomeno le possibilità di rielezione.
Peraltro sarà difficile anche capire come andrà, quali saranno gli sviluppi della crisi sanitaria nelle prossime settimane. I numeri sono diventati improvvisamente meno importanti, così come le curve statistiche di malati e guariti. Il famoso plateau, il grafico che per un mese ci ha informato sullo stato del Paese, è sparito da ogni radar insieme agli allarmi dei virologi.
I dati della pandemia sono stati frullati e incasinati così bene che Umbria e Molise, le regioni più virtuose della crisi, quelle dove il Covid praticamente non è mai entrato, risultavano ieri i luoghi a maggior rischio epidemiologico d’Italia, al livello della Lombardia.
La classifica è stata prodotta dalla cabina di regia composta da ministero della Salute e Istituto Superiore di Sanità, la stessa che ha dettato i 21 parametri su cui valutare le scelte della Fase Due: uno dei principali, cioè la capacità delle Regioni di effettuare tamponi entro cinque giorni dai primi sintomi, resta una riga bianca. Probabilmente la media è rimasta a 9 giorni, ma è meglio non dirlo. Occhio non vede, cuore non duole.
L’improvvisa evoluzione libertaria della crisi non è dunque una scelta politica né l’esito di valutazioni sanitarie sull’andamento dell’epidemia e sull’efficienza delle misure prese per contenerla, ma una sorta di resa all’ineluttabile.
Si è provato a gestire l’uscita dallo stato d’eccezione secondo i protocolli “ideali” in materia di protezioni, tamponi e tracciamento su larga scala, nuove organizzazioni del lavoro e della scuola, coordinamento dei dati sanitari, rilevazioni statistiche unitarie. Non ci si è riusciti, malgrado gli enormi poteri che l’esecutivo si è auto-assegnato e ha gestito per tre mesi.
Si è deciso di gettare la spugna, riconsegnando l’Italia ai micro-poteri che se ne sono da tempo appropriati, tra i quali il più fragile appare proprio quello dello Stato: la mancata riattivazione della scuola (dovuta perlopiù alle pressioni dei dipendenti, molti dei quali tornati al Sud e del tutto ostili a rientrare nei luoghi di lavoro) conferma che il “pubblico” è il vero anello debole della crisi, il luogo dove esercitare l’autorità è impossibile.
Magari andrà pure bene. Lo spontaneismo è il nostro genius loci ed è possibile che questa riapertura “alla svedese”, senza sorveglianza e senza regole, faccia il bene del Paese più delle ambizioni totalitarie della Fase Uno.
Di sicuro l’idea di una “crisi governata” va a farsi benedire e ne esce assai scalfito anche l’ostentato ottimismo dell’esecutivo: se il governo credesse davvero all’idea di un post-Covid di cambiamento e speranza, se davvero avesse fiducia in un glorioso dopo-crisi che affronti e risolva i grandi problemi nazionali, certo ci avrebbe messo la faccia, anziché nasconderla nel polverone di decisioni senza madre né padre.