Quando Dario Franceschini butta là una frase “politica” c’è sempre un motivo, e infatti ogni volta il sasso che egli getta nello stagno crea subito interrogativi, specie se si tratta di un concetto già espresso. Perché ha sentito il bisogno di ripeterlo?
Il concetto è chiaro: «L’accordo fra Pd e M5s deve sfociare in un’alleanza permanente». Il ministro della Cultura ha inteso lanciare ai grillini non uno, non due ma addirittura tre segnali.
Il primo è un messaggio tranquillizzante sulla tenuta del governo, facendo capire più chiaramente di quanto non riesca a fare Zingaretti, e meno ancora un inquieto Orlando, che i nervosismi del Pd non arriveranno mai al punto di mettere in discussione gli assetti politici attuali. Ci possono essere polemiche e distinguo, è vero, ma il capodelegazione dei dem manda a dire al M5s che l’intesa è solidissima e implicitamente a Conte che non sono in corso manovre per destabilizzarlo e che anzi ora lui il “capo dei democratici”, secondo la strana espressione usata da Zingaretti qualche giorno fa. Un messaggio da avvocato a avvocato, complesso ma non troppo.
Il secondo segnale riguarda le Regionali del prossimo autunno. La linea del Pd è quella di una mega-foto di Narni, l’alleanza Pd-LeU-M5s che in Umbria fallì miseramente ma che al Nazareno appare l’unica possibilità per vincere in regioni come la Liguria, la Puglia, le Marche (il Veneto è cosa di Zaia, in Toscana e Campania si può vincere facile).
E infatti in Liguria Andrea Orlando stava lavorando a un’intesa larga che comprende anche i grillini sul nome di Ariel Dello Strologo, presidente della comunità ebraica di Genova, ma per ora fonti del Movimento 5 stelle sentite dall’Ansa hanno smentito questa ipotesi: «Il nome, al di là delle competenze e delle professionalità, di cui non dubitiamo, non è stato condiviso». E in Puglia è molto probabile che si chiuda l’accordo sul nome d Michele Emiliano, il più grillino dei dem, pur provocando la rottura con Italia viva e calendiani.
Il terzo segnale, coerente con gli altri due, è più di “contesto”, di clima. E riguarda la lenta preparazione di una condizione politica che renda sempre più granitica l’intesa con il più forte gruppo parlamentare – appunto quello del M5s – fino alla elezione del nuovo capo dello Stato, una “gara” nella quale Dario Franceschini è fra i concorrenti. A due anni dall’appuntamento i pensieri di molti sono rivolti a questa scadenza. Qualche motore si scalda. Nessuna meraviglia dunque che si cominci a lavorare sulle possibili alleanze parlamentari in vista della conquista del Colle, il capolavoro per qualunque politico.
Si tratta di una tattica organica che forza, e non di poco, la linea zingarettiana alla base della nascita del Conte bis, quando l’alleanza con il M5s venne spiegata con la necessità di sbarrare la strada a Matteo Salvini, dunque come una scelta imposta dalla necessità di proseguire la legislatura per il pericolo che il capo leghista, allora sugli scudi, potesse vincere le elezioni e formare in parlamento una maggioranza antieuropeista.
In buona misura questa motivazione regge tuttora, con anzi in più il peso delle scelte da affrontare nell’era del Covid-19. Ma con la “dottrina Franceschini” l’intesa da tattica diventa strategica, stabile, permanente. Ci manca la firma sotto un patto d’unità d’azione e il gioco sarebbe perfetto.
Il che spazza via tutte le analisi, svolte a suo tempo anche in casa Pd, sulla natura populista e intimamente di destra di un partito come quello di Vito Crimi istintivamente allergico ad una certa idea dello Stato di diritto, all’alleanza europeista e atlantica, all’apertura e all’accoglienza, alla trasparenza della vita politica, un partito a vocazione extra-istituzionale e antiparlamentare che non conosce i dettami essenziali della democrazia interna e che sta mostrando una totale estraeità, meglio sarebbe dire incompetenza, sui dossier di governo.
La scommessa su un patto politica di lunga durata che sconterebbe la rottura con Renzi (e al Pd ne sarebbero entusiasti) probabilmente mette in conto una possibile spaccatura dei grillini, puntando a fare della “parte buona” un nuovo pezzo del Pd che verrà. Una novità strategica, quella del ministro della Cultura, che meriterebbe una discussione interna, come lamenta Matteo Orfini. Di cui però non si vede l’ombra.