Progettazione sensorialeImperativo categorico: unire distanziando

Un collettivo di designer ci spiega come riportare il ristorante alla sua reale funzione, intendendo il design come autentico driver del cambiamento per il settore enogastronomico, che sta vivendo una crisi non solo economica, ma soprattutto di identità

Foto di Lido Vannucchi

Paolo Barichella, Mauro Olivieri, Ilaria Legato, Marco Pietrosante e Francesco Subioli, sono i Food Designer, un gruppo di lavoro che ha creato le basi per l’evoluzione del Food Design in Italia dando alla luce anche il primo Manifesto in materia. Si occupano di innovazione di progetto, di prodotto, di approccio, di storia della cucina e delle forme di convivialità mettendo ognuno a disposizione la propria esperienza nei diversi campi. Insomma, ciascuno ha un ruolo specifico al punto che la loro professione è entrata ufficialmente in ADI (Associazione per il Disegno Industriale) grazie a una Commissione Tematica di cui fanno parte.

Se, come affermano, «progettare per il Food significa creare prodotti, servizi e sistemi per dare forma a un bisogno di consumo ricco di fattori simbolici oltre che funzionali» il loro punto di vista è assai prezioso per far comprendere come tornare al ristorante, nel modo più “normale” possibile. Mentre i divisori in plexiglass e le mascherine a tavola sono stati messi al bando dall’ultimo decreto per la riapertura del 18 maggio, c’era chi ancora prima della smentita di tante fake news aveva definito queste misure come paratie posticce. «Non è progettando paratie, cabine di polimetilmetacrilato (plexiglass) e mettendo le persone sotto campane di vetro che si risolve il problema. Non dobbiamo lavorare per separare, ma per unire distanziando». Le parole sono di Paolo Barichella, executive food designer advisor, che concentra la progettazione su nuove modalità di aggregazione, non su oggetti che dividano. Il che significa «in maniera estremamente semplice, applicare finalmente le elementari regole del Design for All e del Proxemics Design, oltre che quelle del Food Design. Credo di essere molto impopolare nel dire che era già da tempo che il settore ristorazione aveva necessità di rivedere vetusti modelli che nell’ultimo periodo si sono rapidamente involuti. Non sono gli oggetti che vanno progettati e disegnati, ma il nuovo modello di business e i servizi, seguendo i principi base della progettazione prossemica, per dare possibilità alle persone di andare al ristorante per stare insieme e non divise. Il comune denominatore di tutto, però, è intendere il design come autentico driver del cambiamento per un settore che è in crisi non solo economica ma di identità». Proprio in un momento di crisi, Paolo, insieme a Mauro Olivieri, suo socio e designer, ha progettato un innovativo servizio di food delivery che partirà a Milano da questa settimana. «Una nuova metodologia di cucina distanziata, un laboratorio in cui avvengono le lavorazioni con procedure innovative in grado di consentire a chi fa un ordine di completare in pochi minuti a casa dei piatti di Food Design di elevata qualità».

In questo approccio che traguarda la riapertura della porta al ristorante, si torna a porre l’attenzione sull’esperienza di senso che il cliente si aspetta di (ri)trovare entrando in sala e sedendosi al tavolo. A mettere in atto questa strategia è stata Ilaria Legato, specializzata da vent’anni in design della comunicazione, che cura nel dettaglio un tipo di progettazione chiamata Food Experience Design (la progettazione dell’esperienza). «Sempre più strategica, soprattutto nell’era post-covid, sarà la costruzione di un manuale con i valori identitari del ristorante, nel quale è riassunta la cultura di accoglienza del locale attraverso cui riuscire a far vivere un’esperienza unica al pubblico». Proprio in questi giorni Ilaria ha condotto diversi workshop online di “pensiero creativo”, webinar in cui ha cercato di allineare il personale di sala e di cucina sul tema della rinnovata accoglienza «che metta al centro il nostro cliente più lontano solo fisicamente ma che deve tornare a essere “l’Ospite” nel senso latino di “sacro agli Dei”». In qualità di food designer è al fianco degli imprenditori dell’ospitalità per creare nuovi sistemi di progettazione del servizio che partano in primis dalla modalità di accesso all’esercizio. «Stiamo studiando come ampliare flussi e orari di accesso dei clienti al locale con associata una diversa proposta gastronomica. Il tema cruciale, oggetto della nostra riflessione, è la ripartizione dello spazio della sala, tenendo conto che ogni decisione in questo senso, deve necessariamente portare dietro una riflessione sul fatturato relativo a ogni tavolo; le nostre non sono mai progettazioni solo estetiche ma partiamo dalle necessità degli imprenditori». Un rimodulare gli spazi che non è necessariamente penalizzante ma può essere un’opportunità in termini di customer experience, in un clima di fiducia e di fidelizzazione. Ad esempio, si pensi alla possibilità che verrà data alle persone di parlare tra loro a una maggiore distanza nel pieno rispetto della privacy tra tavoli diversi. «Cambierà il rituale di accoglienza e di servizio con un’attenzione maggiore e automatica a una serie di comportamenti a norma. I ristoranti stellati nostri clienti sono in questo più avvantaggiati perché già abituati, in sala e in cucina, a standard di igiene e sicurezza molto alti; le altre tipologie di ristoranti dovranno forse fare uno sforzo in più ma lo faranno nella direzione di alzare il loro livello qualitativo e di sicurezza».

Tra i clienti che si sono rivolti a Ilaria e a cui verrà applicato il suo modello c’è il ristorante La Leggenda dei Frati a Firenze, guidato dallo stellato Filippo Saporito nonché neo presidente JRE Italia, e il Damiano Nigro dell’omonimo chef a Benevello, in provincia di Cuneo, all’interno del Relais Villa d’Amelia.

«Dopo questa pandemia andare a cena fuori sarà qualcosa che si caricherà di significati che andranno oltre il semplice atto di mangiare. Si darà sempre più  valore e attenzione estrema al senso dell’incontro, della relazione così tanto negata durante il lockdown. I ristoranti, dunque, al di là delle distanze fra i tavoli e delle mascherine, dovranno sempre più diventare luoghi dove si mette al centro la relazione con l’altro che prima forse poteva essere distratta e consumata velocemente ma che oggi, nella mancanza, diviene elemento importantissimo. Insieme alle diverse brigate sto dunque lavorando alla creazione di rituali di accoglienza con focus sul vissuto personale di ciascuno dei componenti. Partire dalla squadra permette di rafforzare il senso di identità del brand e soprattutto di rendere autentico e non automatico il rituale del ‘convivio’, dove il cibo farà da collante allo scambio e alla vera condivisione. Questo permetterà di essere memorabili nella mente e nel cuore dell’avventore».

Una sorta di best practice che aiutano a familiarizzare con «il design come l’esatto opposto dell’improvvisazione – secondo Paolo, che aggiunge – Se la società muta nei bisogni sicuramente deve adattarsi a queste trasformazioni: pertanto anche il Manifesto del Food Design non è immune». E se anche il Manifesto non cambierà, a cambiare saranno le necessità del cliente: nei suoi panni quello che rimarrà immutato sarà «il desiderio di andare al ristorante per evadere, per vivere un’esperienza carica di significato che va oltre il nutrimento». Perché nel momento dei paradossi, quando si faceva a gara a chi la diceva più grossa, la domanda su cui ci siamo interrogati almeno una volta è stata: “ma tu, in una cabina di plexiglass che separa dalla persona con la quale vuoi condividere un bel momento a cena, ci staresti davvero?”.

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