Falsi miti La verità, vi prego sui mulini e sul ‘boom’ della farina

La farina è il nuovo must: Gianluca Pasini, dell'omonimo molino mantovano, ci spiega tutte le false verità che abbiamo introiettato in quarantena. E conferma che anche il lockdown ha avuto qualche merito sulle aziende e sugli imprenditori

Forse è semplicemente il modo in cui vengono date alcune notizie, ad alimentare falsi miti, stereotipi e storture. Ce ne accorgiamo quando si parla di politica, di economia, di sanità, e pure il mondo del cibo non è esente da questa comunicazione spesso parziale e un po’ facilona. Un esempio su tutti, quello che da diversi media – o, meglio, dalla maggioranza dei media – è stato definito un «boom delle farine per uso domestico» durante la quarantena da coronavirus. Certo, la pandemia e il conseguente lockdown hanno portato gli italiani a riscoprire il piacere di impastare (la farina ha segnato un +80%, secondo la classifica stilata da Coldiretti nel periodo che va dal 24 febbraio all’8 marzo), ma trasformarli in un plotone di fornai e pizzaioli provetti non significa affatto che i mulini siano a loro volta diventati un esercito di Re Mida.

«Abbiamo registrato un sostanziale calo del fatturato nel settore HoReCa a causa della prolungata chiusura di tutto questo canale, che ha avuto come conseguenza un’importante diminuzione di liquidità per l’intero comparto» spiega Gianluca Pasini, Amministratore Delegato di Molino Pasini, storica realtà molitoria nel mantovano specializzata nella produzione di farine di grano tenero di alta qualità, dedicate sia al consumatore finale (artigiani, grossisti e dettaglianti) sia a chi si occupa della loro trasformazione. Mantenere l’azienda comunque aperta anche nei mesi più difficili ha rappresentato una sfida non da poco: «dover continuare a reperire il grano e a fornire il prodotto è stato parecchio complicato. Non ci siamo adagiati godendoci un momento di gloria probabilmente raccontato in termini troppo entusiastici: sì, il consumo domestico è indubbiamente aumentato, ma ciò non ha in alcun modo colmato il gap che si è venuto a creare dal calo nella ristorazione, che è ben più importante». E per ristorazione, va da sé, s’intende non tanto il locale stellato, quanto settori strategici come pizzerie o pasticcerie, che «sono state in parte sostituite dalla GDO, con varie insegne che ci hanno chiamati perché desiderose di offrire il prodotto di un fornitore qualificato, ma senza che questo compensasse il fatturato perso nel mondo HoReCa».

Nella fase iniziale, continua Pasini, il momento forse più drammatico per le aziende molitorie nel loro complesso è coinciso con il reperimento della materia prima sul mercato: «il problema era soprattutto legato ai trasporti, nel senso che la Lombardia (poi l’Italia nel suo complesso) era colpita in maniera più forte rispetto alle altre regioni, quindi i trasportatori avevano paura all’idea di raggiungerla. In più, molte aziende erano chiuse, e ciò non rendeva conveniente il viaggio: portavano a noi il grano, ma poi dovevano tornare indietro senza poter caricare altra merce. Il risultato? Il costo del trasporto per noi era doppio». Ogni giorno era come essere in guerra: nonostante l’azienda sia fortemente automatizzata e con uno stoccaggio tale da riuscire a far fronte a periodi d’emergenza, il timore di non essere in grado di fornire i prodotti al mercato e di interrompere un’importante catena alimentare – la GDO in quel periodo faceva ordini forsennati, neanche calcolati – era più che tangibile». A tali complicazioni s’aggiunge «l’imposizione, com’è giusto, delle misure necessarie alla salvaguardia dei nostri collaboratori e degli attori coinvolti nell’ambito dell’industria molitoria: operazioni che al tempo stesso hanno sconvolto il normale lavoro quotidiano».

Pasini sottolinea però anche la presenza di un silver lining, come in una qualsiasi situazione critica che si rispetti: «prendiamo lo smart working, ad esempio. All’inizio eravamo spaventati, io per primo adesso mi rendo conto che s’è trattato di una rivoluzione anticipata dal virus: ora ci siamo abituati a un metodo lavorativo a cui forse non avremmo mai fatto ricorso e che avremmo sempre guardato con titubanza. L’imprenditore italiano d’altronde – a differenza dell’imprenditore anglosassone – ha una mentalità più antiquata, che grazie al virus, strano a dirsi, sta progressivamente abbandonando». Il Covid-19, quindi, ci ha pure fatto compiere dei balzi in avanti a livello tecnologico (si pensi a piattaforme come Zoom, ormai d’uso quotidiano), e «ha costretto le aziende a evolversi e ad adattarsi alle tecnologie esistenti, consentendo loro di risparmiare tempo ed energie negli spostamenti, il che si traduce inoltre in un maggiore rispetto dell’ambiente».

Tornando allo scenario attuale, per un’azienda come Molino Pasini – il cui fatturato è garantito per un 50% dal canale artigianale, per un 15% dal canale estero, per un 25% dal canale HoReCa e per il 10% dalla GDO – la recente possibilità per i ristoranti di effettuare delivery e asporto «ha spostato davvero poco i volumi dell’HoReCa, che si sono mossi di un 10%». Chiaro è che «i volumi pre-coronavirus sono irripetibili: il distanziamento sociale è un fattore che inciderà tantissimo su pizzerie e ristoranti, e chi poggiava la propria sopravvivenza su una massiccia rotazione di clienti sarà purtroppo destinato a soffrire parecchio». C’è da chiedersi se questa dura realtà dei fatti non costringerà i ristoratori a lesinare sulla qualità delle materie prime, nella speranza di ottenere qualche margine in più: «non credo, perché nel tempo il ristoratore italiano ha capito che la differenza la fa la qualità, e che il cliente ritorna solo se il livello qualitativo rimane alto. Il rischio è che la cosa venga risolta a scapito del capitale umano, attraverso licenziamenti a raffica perché il sostentamento del sistema economico non è più ammissibile. I costi del personale si riveleranno troppo elevati per poter mantenere una struttura imprenditoriale com’è un ristorante, se non si hanno degli introiti adeguati: tutti noi vogliamo tutelare i posti dei nostri dipendenti, ma occorre trovare degli incentivi che garantiscano la salvezza dei ristoranti, altrimenti la metà è destinata a chiudere».

Intanto, come prevedibile, dopo un picco durante il lockdown il consumo domestico di farina è lievemente calato «un po’ appunto per via della ‘novità’ del delivery e del take away, un po’ per via dell’arrivo del caldo, che non invoglia certo ad accendere il forno. Ovvio che nelle settimane passate la farina ha svolto una specie di ‘azione terapeutica’, aiutandoci a riempire le giornate passate a casa e a godere del tempo trascorso con la famiglia, cucinando insieme. Non è però un vissuto che andrà perduto, anzi: sono convinto che ce lo porteremo dietro per sempre». Gianluca Pasini non dimentica mai nemmeno i fornai e i panificatori, i quali «hanno fatto un lavoro immane ed enorme al servizio del Paese, continuando a rimanere aperti sin dal primo giorno con ritmi comunque sostenuti e assumendosi dei rischi. La gente andava con piacere dal piccolo fornaio sotto casa perché si sentiva sicura, per avere il pane fresco e per evitare spostamenti: in un certo senso c’è stata una riscoperta della bottega di quartiere, e noi siamo davvero felici di averla sostenuta sin dall’inizio, anche in tempi non sospetti». E se la farina, oltre a svolgere una funzione meramente ‘alimentare’, ne svolgesse pure una – azzardiamo – sociale? Beh, qualcosa lascia presagire che Gianluca Pasini sarebbe assolutamente d’accordo.

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