Guarderemo indietro, a prima dei drammatici mesi di 41 bis casalingo, e alle cose che ci parevano sensate. E che hanno perso di valore nel giro di una manciata di giorni. Tra queste ci sono anche le “tendenze food”, le indicazioni su “cosa mangeremo-cosa berremo” nel 2020, con in calce la firma di riviste patinate, giganti della GDO, guru del cibo e via così. Tra blocco totale del fuoricasa – prima – e incertezza della ripartenza poi, con restrizioni e corollario di stigmatizzazione della movida e degli scelleratissimi giovani vogliosi di vita sociale (ma dai), quei punti elenco rischiano di essere svuotati di senso? Non è detto che sia così.
Quanto alle tendenze beverage del 2020, a parere quasi unanime questo doveva essere l’anno dei mocktail, del bere miscelato senza alcol. Neologismo che gira da qualche anno e che include il termine “mock”, “finto”, finito pure nel Cambridge English Dictionary. Attenzione, non sono solo drink analcolici che scimmiottano i grandi classici ma senza componente alcolica (Il Bloody Mary senza vodka, insomma), ma in senso più ampio prodotti miscelati sofisticati e senza alcol (non un Bloody Mary ridotto a succo di pomodoro), con una loro dignità. Bere meno (alcol) e bere meglio continuerà ad essere una tendenza valida. Ce lo spiega Mario Farulla, punto di riferimento dell’alta miscelazione italiana, bar manager del Baccano a Roma, a pochi passi dalla Fontana di Trevi. Innanzitutto, piano a definire i mocktail una novità. «Una volta erano indicati come virgin drink, poi ha preso piede – tra il 2012 e il 2014 – questa definizione più politicamente corretta, a partire dal mondo anglosassone e dal medio-oriente».
Nella miscelazione i concetti di “low” e “zero alcol” si sono sviluppati insieme alla macro tendenza del “bevi responsabilmente” e di qualità. Abbandonando la strada dell’alta gradazione alcolica, nel quindicennio in cui si sono inasprite sempre più le regole della strada vera, le conseguenze per chi guida in stato di ebrezza. «Ci si è specializzati sempre di più in drink leggeri», spiega Farulla. L’alcol è sicuramente un olio sociale, ma nella visione evoluta dei Bartender «non è più un mezzo che ti deve portare all’ebrezza, ma un fine: deve essere un piacere berlo, ma con consapevolezza; quindi niente eccessi. Dal momento in cui si comincia a mettere attenzione pari a quella che si metteva nei drink alcolici classici, nascono i mocktail». Guai a immaginare mix di succhi di frutta da supermercato e qualche spezia buttata a caso: ci troviamo centrifugati sofisticati, spume, frutta e verdura di prima scelta.
Perfino la sezione Style del “South China Morning Post” – nuova bibbia del cosmopolita-giramondo con occhi puntati a Est – li studia e ne conferma la solidità. Hanno preso piede un po’ ovunque, dai bar di Shanghai ai ristoranti di Parigi, fino ai menu delle compagnie aeree (prima che la revisione della carta diventasse l’ultimo dei problemi di Virgin Atlantic & compagnia). Il giornale di Hong Kong sottolinea anche che i mocktail risultano spesso più dispendiosi dei loro cugini alcolici. Un controsenso, se si pensa al mocktail come a un qualcosa che ha “meno” del cocktail – idea facile da sposare, è pur sempre un “free of”, un “senza”. E invece no. Un po’ perché sono un consumo, appunto, cosmopolita. «Più in alto vai, più il drink sofisticato e senza alcol è accettato. In Italia la scena è Milano e Roma, e poi le città medie con impronta culturalmente avanzata; molto meno la provincia»”, spiega Mario Farulla. Ci sono spezie e superfood, c’è l’idea di parlare a un pubblico giovane e dinamico, ma non per forza avvezzo all’hangover della mattina dopo (perché magari tocca presentarsi a quel cda importante, il fiato di Tequila non aiuterebbe). Insomma, c’è la nomea da bevanda di lusso, preparata con dovizia. Ancora Farulla: «Noi proponiamo un drink analcolico con limoni di Sorrento, spuma al sedano, succo di lime e cavolo nero centrifugato. Facciamo anche dei drink simili allo Spritz per i bambini, serviti in calice con la stessa cura: quasi dei Campari spritz come colore, con soda al limone, succo di cranberry, sciroppo di more guarnito con more e ciuffo di menta. Bicchiere uguale a quello di papà, e i bambini si sentono importanti».
Tutto questo come si sposa con le tasche un po’ più vuote con cui ci lascerà il peggior shock all’economia mondiale mai registrato da un secolo? «Certo, i numeri saranno diversi, ma non si torneranno a bere mappazzoni di succo di frutta di bassa qualità. L’Italia resta un mercato particolare: abbiamo accesso al vino a prezzi molto più bassi, e il vino non è certo un superalcolico. E poi la gente da noi non si chiude dentro un locale per 4-5 ore perché fuori piove a dirotto, ma passeggia, esce. Se guardiamo solo al bere bene e “alto”, quella dei mocktail resterà una tendenza; semmai c’è strutturalmente meno spazio al consumo dei mocktail su più larga scala». Abbiamo meno vincoli socio-culturali al consumo di alcol? «Sì, anche perché non abbiamo il problema così diffuso del binge drinking – l’abbuffata di alcolici – come nei paesi anglosassoni», spiega il bar manager. Viene in mente (con malinconia) il compianto John Peter Sloan, quando raccontò che, fermato in Italia da una volante mentre era “in stato di felicità”, alla richiesta di soffiare nel palloncino provò una battuta: «“Potete almeno impostare la macchinetta sui parametri inglesi?”. Non hanno riso molto…».