Nicolas Mathieu«Forse alla fine crederò all’Europa solo grazie alla bellezza di Monica Vitti»

Intervista allo scrittore vincitore del Premio Gouncourt per “E i figli dopo di loro” (Marsilio), il romanzo che dà voce ai ragazzi della provincia francese degli anni Novanta. Quella generazione che dall’essere figlia di un “popolo” adulato dalla sinistra è diventata interlocutrice dei populisti

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Ogni lunedì Europea vi porta alla scoperta dei più originali scrittori di successo in Europa, ma poco conosciuti in Italia.

«La letteratura ha il potere di dare il nome alle cose, che non è male». “E i figli dopo di loro” (Marsilio) di Nicolas Mathieu, con cui l’autore francese ha vinto il Premio Goncourt nel 2018, è un proiettile al cuore d’Europa. È il romanzo che dà voce ai ragazzi della provincia francese degli anni Novanta. Quella generazione che dall’essere figlia di un “popolo” adulato dalla gauche è diventata interlocutrice dei populiste

Nell’immaginaria città di Heillange, in Lorena, gli altiforni della Metalor per sei generazioni «avevano drenato tutte le esistenze della regione, inghiottendo gli individui, le ore, le materie prime. Da una parte i vagoncini trasportavano su una via ferrata il combustibile e il minerale. Dall’altra ripartivano sui binari i lingotti di metallo, prima di avviarsi lungo il corso dei fiumi in lenti itinerari per tutta l’Europa». 

Poi la fabbrica chiude, spazzata via da una globalizzazione che in quei luoghi ha succhiato linfa, per far crescere altrove i suoi frutti. Anche l’integrazione ha fallito. L’unica speranza sono le nuove generazioni, che non possono provare nostalgia per un mondo che non hanno mai conosciuto e sono costrette a imparare ad amare, sognare, sfrecciare in moto e desiderarsi in questa Francia periferica, disilluse senza mai esser state illuse. In una comunità che si sfalda in seguito alla deindustrializzazione, gli adolescenti restano «giovani e belli da far paura» e sognano di squagliarsela, possibilmente con vestiti di marca.

«Penso che tutti i miei libri siano in qualche modo politici», spiega Mathieu, «raccontano i rapporti all’interno della società, le distanze che separano le persone e le classi, gli interessi che le mettono in competizione e le cose che le accomunano. Ma non credo la letteratura possa risolvere problemi storici e sociali: se prova a farlo, entra nel campo della beneficenza, uno sforzo ridicolo e in ogni caso illusorio». 

La letteratura non può rimediare alle storture della realtà e forse neppure influenzarla, eppure le 477 pagine di Nicolas Mathieu (edite da Marsilio, tradotte da Margherita Botto) non solo terremotano tutte le teorie sullo scomodo adattarsi della forma romanzesca alla frammentarietà della contemporaneità, ma lo fanno con gli strumenti del caro vecchio realismo: scene flaubertiane, esistenze che sfrecciano in rappresentazioni corali, lingua media che spesso si sintonizza su quella dei giovani protagonisti senza banalizzarsi.

«La letteratura può dire la realtà attraverso una lingua, uno stile che danno un potere supplementare alla sua capacità di nominare le cose», spiega Mathieu. «La realtà è al di sopra delle nostre forze, non bisogna confondersi. Ma il fatto stesso di poterla nominare, di riuscire a fissare dei nomi alle cose, di produrre senso e influenzare il lettore, proprio come la realtà fa con tutti noi: ecco, questo almeno ci permette di esistere in maniera meno miserevole. Sono abbastanza sicuro che quel poco di libertà che ho conquistato, la devo ai libri letti». 

A essere operativamente impotenti di fronte agli ingranaggi dell’economia e della politica, secondo Mathieu, non è solo la letteratura ma gli individui stessi: «Siamo responsabili di ciò che diventiamo? Tutto concorre nel fare di noi quello che siamo, ma credo che la nostra cultura, nonostante le evidenze e ciò che sappiamo dalle scienze sociali, continui a sopravvalutare il peso delle determinanti individuali. Le strutture sociali hanno un peso molto più elevato ma meno percepibile ai nostri occhi occidentali, che credono ancora che l’individuo sia l’alfa e l’omega della vita umana».

Vista da Heillange, l’Europa è sinonimo della globalizzazione che ha chiuso la fabbrica e frantumato ogni certezza. A ragione o a torto? «Da una parte è vero che l’Unione Europea è stata il braccio armato della globalizzazione. Ma l’Unione ha anche fornito solidarietà e protezione alle popolazioni: la politica agricola comunitaria ne è un esempio. L’Unione Europea è un’immensa costruzione, estremamente complessa, caratterizzata da un po’ di democrazia, molta tecnocrazia, una storia lodevole, fallimenti e successi.

Al centro c’è il progetto neoliberale: la cui missione è di garantire la libera concorrenza, e questo è un problema. Per me, il momento di rottura è stato quando la troika ha imposto le sue decisioni alla Grecia. La storia si scrive anche attraverso le cancellazioni, passando una spugna, e mi rattrista molto che un paese come la Germania, che dovrebbe avere una buona memoria, se ne sia dimenticata. Si sarebbe dovuto cancellare buona parte del debito greco».

Dall’altro lato, ammette Mathieu, «l’Europa è il grande progetto politico della mia adolescenza. Mi sento molto francese, ma Germania, Italia, Inghilterra sono state centrali nella mia formazione, per non parlare dell’Irlanda, che rappresenta per la letteratura ciò che la Croazia è per il calcio: un piccolo Stato che ha un numero abnorme di geni rispetto alla sua densità demografica».

Se gli si chiede quali sono le caratteristiche che contraddistinguono l’Europa per com’era nei sogni della sua adolescenza ne individua due: l’idea di uno Stato sociale e la democrazia («Entrambe sono minacciate, fragili, sempre da difendere»). E poi una terza, più indistinta ma non meno pervasiva: «È qualcosa di indefinibile, quasi un profumo, qualcosa di molto antico, sofisticato e brutale, che attraversa e permea Roma e Verdun, le fabbriche di Manchester e i bagni di Budapest, Auschwitz e gli Champs Elysées, il Danubio e Atene, Goethe e Joyce. Una sorta di invaso, di brodo di coltura, storico e geografico, nel quale siamo nati e cresciuti, del quale siamo più o meno consapevoli, ma che esiste e ci influenza». 

Nato nel 1978 a Épinal, regione Grand Est, da un operaio elettromeccanico e una contabile, Nicolas Mathieu è cresciuto in un contesto socioculturale simile a quello che descrive e si è salvato grazie allo studio. Ha conosciuto l’Italia e la Germania, è vissuto in Inghilterra, ma la maggior parte dei suoi viaggi nel continente li ha fatti recentemente, per presentare il suo romanzo.

Ai pochi spostamenti hanno compensato le molte letture di autori europei e gli studi di storia dell’arte: «Ho avuto, per fare un esempio, una fase Moravia. Il mio innamoramento per l’Italia risale a quando ero uno studente. Sono stato a Roma e Firenze a vent’anni. Ho sempre frequentato le scuole private, cattoliche.

Quando oggi entro in una chiesa, a Chartres o a Siena, so che c’è qualcosa che ha a che fare con me, che mi riguarda. Capisco le immagini, le rappresentazioni che vedo. So chi sono i guelfi e chi i ghibellini, cos’è la Sublime porta, cos’è la Riforma, chi sono gli Asburgo o cosa ha rappresentato la battaglia di Hastings. E poi, c’è il cinema. Chissà, forse alla fine crederò all’Europa solo grazie alla bellezza di Monica Vitti».

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