Lui li chiama «i miei progetti folli», e non ha tutti i torti. Sono le opere faraoniche, le costruzioni in acciaio e vetro, i grattacieli con cui il presidente turco Recep Tayyp Erdoğan ha rimodellato il volto del suo Paese. Un lavoro di cementificazione portato avanti senza pietà: snaturando interi quartieri, rifondando sobborghi, disboscando parchi in nome della modernizzazione, vera o presunta.
Se da sempre la megalomania architettonica è il biglietto da visita dei poteri autoritari: quello guidato da Erdoğan non fa eccezione. I sogni del neo-ottomanesimo, sotto di lui, non rimangono sospesi come parole nei comizi: diventano concreti, reali e imponenti.
Lo racconta bene la giornalista e scrittrice Giovanna Loccatelli in “L’Oro della Turchia”, edito da Rosenberg & Sellier. L’ansia edile degli ultimi 20 anni che ha trasfigurato (e sfigurato) città come Istanbul e Ankara, fa notare, è tutta politica. Traduce un desiderio magniloquente di grandezza, la volontà di affermarsi tra le grandi nazioni e, al tempo stesso, l’ambizione di rifondare lo stesso popolo turco.
Di fronte a queste distorsioni, restano vane le parole di intellettuali e scrittori, come – viene in mente – il premio Nobel Orhan Pamuk, che non riconosce più il volto della città in cui è cresciuto, a partire dal colore delle luci notturne, sempre più chiaro e freddo. O il regista Ferzan Ozpetek, che ricorda: «Gli edifici che mostro all’inizio di Rosso İstanbul non ci sono più, oggi sono crollati».
I “progetti folli” di Erdoğan sono opere ciclopiche destinate, più che altro, a sbalordire il mondo. Un esempio è il nuovo aeroporto, fuori Istanbul: 77 milioni di metri quadrati, e 53mila destinati al duty free «più grande del mondo», 42 chilometri di nastri per i bagagli, il tutto per 29 miliardi di euro.
Inaugurato nel 2018, non è ancora del tutto operativo perché mancano ancora importanti collegamenti alla città e a volte, quando c’è vento e nebbia (entrambe condizioni frequenti sullo stretto) non è nemmeno funzionale. Ma che importa.
Un altro è, o sarà, il Kanal İstanbul, cioè uno stretto alternativo al Bosforo, non ancora realizzato, che collegherebbe il Mar Nero al Mar di Marmara con i suoi 43 chilometri di lunghezza, i 400 metri di larghezza, e i 25 di profondità.
Un’opera che cambierebbe per sempre i connotati della zona, lasciando il segno di Erdoğan per gli anni a venire.
E ancora: ponti, autostrade, metropolitane, tunnel sotterranei. Tutto ciò che è sinonimo di modernizzazione va bene: promuove l’immagine della Turchia, quella del governo e promette prosperità. Il cemento è oro.
Anche perché permette, almeno nella volontà di chi è al potere, di plasmare la nuova coscienza nazionale.
È un aspetto importante, su cui fanno leva le proteste di accademici e urbanisti e che il libro esplora con cura. La nuova architettura delle città va a incidere sulle faglie sociali, alimentando le disuguaglianze già presenti.
La separazione tra ricchi e poveri passa per i nuovi quartieri, la creazione di gated community e, soprattutto, la promozione di nuove e diverse forme di stili di vita. Il simbolo principale, in questo senso, è il centro commerciale. Lo shopping mall, onnipresente, si sta trasformando nel nuovo spazio pubblico, con i suoi orari, i gusti, le abitudini: per il momento sono 431 in tutto il Paese, con 38 in arrivo.
Il processo va a innestarsi nella storica divisione tra “turchi bianchi” (Beyaz Türkler) e “turchi neri”, cui è dedicato un importante capitolo.
In linea di massima il primo gruppo raccoglie la classe borghese e internazionale, urbana, istruita, laica e aperta, non definita dal punto di vista politico bensì dall’atteggiamento sereno nei confronti dei piaceri della vita. Un mondo élitario che il presidente turco ha saputo attaccare per ragioni di consenso e poi accontentare per governabilità.
Al contrario, i turchi neri indicherebbero le classi periferiche, rurali, legate a usi e costumi tradizionali, con mentalità conservatrice e molto religiosa. Cioè la maggioranza.
Se appare ancora difficile una divisione netta tra le categorie, risulta evidente come il presidente turco abbia fatto leva proprio su di loro per ottenere il potere e poi diffondere la sua nuova visione politica e sociale, che fonde modernità a nazionalismo, tradizione e futuro.
Il simbolo architettonico che lo riassume (faraonico, abusivo e controverso) è proprio il nuovo palazzo presidenziale (Cumhurbaşkanlığı Külliyesi) di Ankara, inaugurato nel 2014. «Una delle critiche più ricorrenti è l’eccessiva magnificenza dell’edificio», si fa notare.
Oltre a quella per i costi: i numeri ufficiali appaiono troppo bassi. Ma per un complesso di 30mila metri quadrati, su un terreno esteso il doppio, posizionato «nell’Atatürk Forest Farm (Aoç) – un ampio spazio verde creato come parte degli sforzi di modernizzazione nei primi anni repubblicani» quasi a sfregio della memoria di Atatürk e come sfida nei confronti dei vincoli ambientali, la vera questione è un’altra: l’architettura.
«Il palazzo presidenziale doveva presentare una nuova sintesi, seppure con la stessa denominazione ottomano-selgiuchide», che fosse «il frutto di una combinazione diretta tra il classicismo occidentale e le caratteristiche islamiche di marchio turco», quindi «un’amalgama di classicismo occidentale e islam turco prodotto da un architetto nato in Turchia ma di base in Europa».
Il tutto teso a mettere «al centro dello scacchiere politico la figura, forte e influente, di Erdoğan».
Tradizione e avanguardia. Ma anche nazione e islam. «La nostra cultura», ha detto. Il tutto cementato in un’unica opera, anche questa “folle”, che riassume tutte le altre.