Post bellico Oste, cuoco, combattivo: Filippo La Mantia riapre con grinta

Con energia rinnovata e un vigore che gli è proprio, il ristoratore siciliano di Piazza Risorgimento a Milano non aspetta nemmeno un’ora e ridà vita al suo locale

Un bar, una pasticceria, un ristorante, uno spazio bollicine. Un bisogno viscerale di condivisione con le persone, che fanno quotidianamente il successo del suo locale: uno dei pochi che – prima della pandemia, ma siamo pronti a scommettere anche dopo – macina coperti e fa girare tavoli. Parliamo di Filippo La Mantia, oste e cuoco come si autodefinisce, combattivo e determinato fin dalle prime ore di riapertura.

Uno dei pochissimi che non ha aspettato un solo giorno per decidere di tornare sulle barricate, e di mettere a frutto la sua energia. Che è irrefrenabile, un flusso ininterrotto di parole che si percepisce avesse davvero la necessità di esternare: «Io voglio bene a tutti e rispetto tutti. È successa la fine del mondo, una pandemia, il mondo è in ginocchio. Bene, ok. Adesso che facciamo: ci spariamo tutti? Reagire è una parola complessa, non la voglio usare. Ma almeno cerchiamo di illuderci di fare quello che facevamo prima. Poi sarà la gente a decidere. Se non provi, non fai.»

E quindi al bando le titubanze che stanno esternando tanti suoi colleghi, più orientati alla chiusura e all’aspettativa, e su la saracinesca del suo locale in piazza Risorgimento: «Io ieri ho aperto. E c’è stato un flusso piacevolissimo. La gente è affezionata ai luoghi, i quartieri hanno i loro posti. La maggior parte sono stati tre mesi chiusi nelle case, un’altra parte andava al lavoro ma con tutto chiuso. Mancano i soldi, c’è crisi, quello lo sappiamo tutti. Forse io sono uno di quei venti che a Milano ci rimarrà sotto, perché ho una struttura talmente grande che se il lavoro dimezza non la riesco a mantenere. Ma voglio andare fino in fondo e stop. Ho aperto il bar e ho fatto il servizio del pranzo: e le persone sono venute a mangiare qui, con tutte le norme di sicurezza, distanze, mascherine, liquidi. Abbiamo fatto tre tipologie di menu: uno usa e getta, uno plastificato che si può sanificare e una app che ti permette di vedere la carta direttamente sul telefonino. Sabato aprirò anche a cena. Ho dodici prenotati, e chi se ne fotte.»

Il tono è colorito, le parole non sono filtrate: è così come lo conosciamo, immediato, istintivo, concreto. Non ha perso un grammo della sua grinta: «Sono uno così, uno da guerra. Dal 12 marzo fino a oggi non mi sono mai fermato: ho fatto un manicomio di cose. Io consegno a casa il cibo alla gente, mi metto in moto e porto personalmente i pasti, mi diverto molto. Prima venivano loro da me e adesso vado io da loro. Qual è il problema? Poi abbiamo cucinato per il Niguarda per un mese, ci siamo dati da fare. Ho pubblicato ogni giorno ricette, la gente era felice: tutto qui. Ho conosciuto probabilmente molto meglio le persone in questi mesi rispetto a quanto le conoscessi prima, perché approfondendo i rapporti, comunicando quotidianamente quello che facevamo, ascoltare le loro voglie, i loro bisogni e le mancanze che avevano, andando a casa loro, mi ha permesso di scoprire delle realtà bellissime.»

È solo una questione di forma mentale, quindi? «Allora: io non vorrei essere frainteso. Siamo tutti in una situazione allucinante, che sia chiaro. Potevo immaginarmi di vivere un terremoto o una guerra, ma un’epidemia di questo genere nell’era moderna mai avrei immaginato di vederla. E anzi, pensa senza tecnologia che cosa sarebbe stato. Però è inutile che ci barrichiamo dietro ai “non mi hanno pagato, la banca non mi ha dato i soldi, il governo è cialtrone, la cassa integrazione non è arrivata”. Siamo messi tutti così. Stando chiuso che fai? La gente ha bisogno di noi. Le attività si ricreano e si rigenerano attraverso le persone. Se non fai vedere un minimo di partecipazione la gente come fa a riprendersi i propri spazi? I luoghi appartengono alle persone, non appartengono a noi.»

E il mondo di prima? «Le guide, i riconoscimenti: tu ti ricordi tutte queste cose? “Io cucino così ho il voto alto, la guida, le riunioni, i congressi”. I ristoranti li fanno le persone: non i critici, le schede, le cose fighe. Tutti fighi siamo. Ma adesso siamo in guerra: bisogna abbracciarsi. Poi se tra due mesi non arriviamo da nessuna parte, calo le saracinesche, porto i libri in tribunale, arrivederci e grazie. Ma finché ho un luogo, questo luogo devo capire come farlo funzionare. Tutto qui. Altrimenti tra un mese che faccio? Va fatto subito.»