Ogni giorno volano parole, ogni giorno ha le sue e i loro voli. Per le piccione e i piccioni questo è il tempo dell’accoppiamento. Per le parole lo è sempre. Per esempio distanza e turismo, una picciona e un piccione. Faccio accoppiare queste parole, vediamo che m’invento. Ma io non m’invento niente, lascio che le parole vengano, che mi vengano in mente. E io che faccio? Solo confusione. E allora vado a farla.
La distanza, Maupassant, quei suoi racconti, quei racconti che furono i nostri racconti giovanili, quando noi eravamo canottieri e facevamo scorrere le nostre canoe, le iole, sul flusso, nel flusso di coscienza, questo moto interiore. Flusso di coscienza e Maupassant, pare un’accoppiata strana. Quei racconti pieni d’aria e d’acqua in flusso, insomma di vita immaginaria, e egli se ne libera.
La migliore letteratura (sto giocando d’azzardo) è da sempre sgorgo d’un flusso, diciamo di coscienza, oppure stiamo qui a raccontarci storie, pur belline ma buone per l’aneddotica del vivere, roba da scrittori, che scrivono per dire d’esserlo e, detto questo, sono quasi nulla più. Maupassant non è uno scrittore, è Maupassant.
Chi scrive al meglio di sé non è che il proprio nome e la propria coscienza. Egli la chiama “la mia seconda vista”. «Scrivo perché comprendo e soffro tutto ciò che è, perché lo conosco troppo e soprattutto perché, non potendolo godere tutto, lo contemplo in me, nello specchio del pensiero», uno specchio d’acqua. Perché accada ciò che è, perché accada la realtà, deve porla a distanza, deve scriverla, deve fare andare il flusso di quell’acqua. Le cose che veramente conosciamo sono le cose segrete, ma segrete in noi.
Per intanto ne consumiamo altre come aneddoti ma quelle cose segrete le stipiamo, come lo scoiattolo le noci e le nocciole e i pinoli. Sappiamo che ci sono, sono nella nostra tana e noi ci dormiamo sopra, le coviamo (un personaggio di Maupassant lo fa davvero, in senso avicolo: cova le uova). Gli incisivi degli scoiattoli non smettono mai di crescere, come quelli dei veri scrittori.
La distanza, Maupassant, quelle sue zumate, quelle sue zannate da lontano su un polpaccio, su un seno in altalena che oscilla ma solido e senza tremiti come un marmo. È flusso di coscienza o no? È flusso, è flusso. Certe cose esistono nella realtà perché le abbiamo ricamate a mente, compresi i fiorellini che poi descriveremo. Sennò, dico, davvero davvero, ma che stiamo lì a descrivere la margheritina della camomilla? Se la vita fosse acqua e se noi fossimo canottieri sulla iole, percorreremmo il flusso, no? E non è un corso liquido, dei nostri liquidi in noi, la vita?
Stupidamente sì, ingenuamente sì, ovviamente sì. Siamo forse qualcosa di più che stupidi, ingenui, ovvi, noi in noi stessi? Perché negarci questa soddisfazione d’esserlo?
Stupidi, ingenui, ovvi: è la meraviglia. Sì, quei racconti sono tutta coscienza in canotta, che voga e che attraverso i remi imprime (insomma, stampa) nel flusso storie e personaggi che sono parole, parole che “non si meravigliano di nulla quando si tratta di passione”. E se c’è un cacciatore sulla riva, che tira tra le anatre alle canne… scusate, è il flusso: che tira, tra le canne, alle anatre (ma è lo stesso e se non si capisce questo non si capisce niente) … se c’è, e c’è, perché il cacciatore è di tra l’ovvio delle canne sull’ovvia riva, ecco che sul filo della mira, sul rigo della mira, questa frase si compone da sola: «Non è una disgrazia essere tanto sentimentali?». Ecco che la sparata è scritta.
Apriamo a caso: «L’autunno era triste e piovoso. Le foglie arrossate, invece di scricchiolare sotto il piede, imputridivano nei viali, sotto i violenti acquazzoni», imputridivano nella gloriosa edizione tascabile Sansoni, per gentile concessione delle edizioni Casini, Firenze; traduzione, pure gloriosa, di Mario Picchi.
«La foresta quasi spoglia era umida come un gabinetto da bagno» quell’anno. Anni dopo, asciugate da un vento secco, sempre d’autunno, «quelle foglie si stavan sfacendo in polvere e l’odore di questa marcescenza era gradevole» in un libro di Bellow, nella traduzione di Pier Francesco Paolini.
E poi: «L’aria non era balsamica ma buona». Che ottima sfiducia nella realtà, e anche nella scrittura, che fa parte della realtà, la realtà come testo. Che magnifica fiducia nella propria capacità di scrivere: di prendere un po’ in giro il mondo e la scrittura, lasciandosi andare, da sé fuor di sé. Vieni, usciamo, dico a me.
Insomma, cosa sto facendo? Sto camminando, sto mantenendo le distanze tra me e me stesso come testo, per vedermi scritto. Mi vengono parole in mente, è primavera e mi vengono in mente frasi autunnali. Cammino sotto gli aceri. Su di me, in alto, a distanze varie, stanno crescendo le foglie nuove, chiare e fresche, e io emetto moniti da prete: polvere siete eccetera. È l’eccitazione.
Vado a «scoprire le bellezze che non conosco, per poi tornare a godere di quelle che conosco». Mi autorizza il premier, che oggi mi fa da ruffiano, chissà forse lenone. La frase è sua, quasi una variazione tematica da Maupassant. La ragazza non so chi sia, ha uno splendido tendine d’Achille, una corda d’arco d’Ulisse, anzi due, due nude tensioni, nei primi semplici sandali della stagione che comincia a essere calda.
Mi precede e io mantengo la distanza. Schiaccia e polverizza il mio sguardo serpentino sotto i suoi morbidi, lisci talloni alternati. Perché l’autunno? Perché è come dopo l’amore, cadiamo dai rami di noi stessi come foglie arrossate, caduche e sazie.
In noi non c’è realtà, c’è solo un legame con la realtà, è come un nastro che stringe fogli di lettere, epistole, insomma missive che noi scriviamo essendo in visita nella realtà delle cose, dei fatti, delle persone, come fosse un paese di vacanza, la realtà, di esilio, anche di smarrimento se non di perdizione, ma anche di gioco, di futilità, d’azzardo, con le terme e un elegante casinò, e gli angiporti, e i vicoli anche, e immondizia ogni tanto.
Poi noi le riponiamo quelle pagine arrotolate come gusci, «come lo scoiattolo le noci e le nocciole e i pinoli: sappiamo che ci sono, sono nella nostra tana e noi ci dormiamo sopra». Cito me stesso come fossi un classico. Non facciamo gli ingenui, sappiamo quante cose la distanza consente e anche incoraggia. La distanza, che non è una misura, è l’elemento nel quale si vive fluttuando ossia non solo con il corpo ma anche con lo spirito, addirittura con l’anima molto ma molto sodale, socia, compagna, stelo della carne, come il tondino e il fil di ferro nelle sculture di creta (siamo fatti di creta, no?).
Ma l’anima non è fatta di ferro, è quasi di natura vegetale, ramifica, fa le foglie e i fiori, ama, a differenza del corpo, la distanza nella quale si espande. Ecco, un effetto del distanziamento è questo: la scoperta dell’anima, la rampicante della quale noi siamo il vasetto, qualcosa in noi come l’edera, il gelsomino odoroso, che escono fuori di noi disegnando volute, e anche con una certa voluttà.
Per fare un esempio, William Morris starnutiva la propria anima sulle pareti, copriva così la distanza e i divani, con le sue goccioline d’anima floreale. Ragazza, le dico a mente, per oggi niente abbracci che poi slacceremmo, ma solo pagine da rilegare. Se ci abbracciassimo le stropicceremmo sotto le nostre voltate e girate, le polverizzeremmo con piacere. Ma non è oggi l’autunno, che viene dopo l’amore afoso.
Oggi è durante, oggi è letteratura, saremo letti per sempre. Il flusso di coscienza è spesso flusso del sesso, e chi legge non si rende conto di quello che gli mettiamo sotto gli occhi. Infatti Joyce ci dette dentro, lui che aveva il chiodo fisso, l’anima, la passiflora, perciò andava a spasso tutto il giorno, specialmente a giugno, quando la passiflora lancia i suoi getti.
Turismo interno, sì, turismo interiore fuor di sé. La picciona e il piccione hanno fatto, tornano distanti, scuotono le piume veramente come piumini dopo una passata sopra la polvere. Ciao, ragazza, da qui non te ne andrai mai più.