Roma e MilanoDialogo sulla quarantena tra Enrico Ruggeri e Luca Ricci

Lo scrittore e il cantante hanno deciso di scriversi per un giorno intero per farci passare questa quarantena tra letteratura e musica, tra Guy de Maupassant e i Clash

Afp

Uno è un artista eclettico capace di sdoganare il punk in Italia e vincere un paio di Sanremo (nella stessa vita), l’altro è il bad boy della letteratura italiana. Entrambi con un libro fuori con lo stesso editore, La nave di Teseo, Il professore nano di Enrico Ruggeri parla del potere di superare i propri limiti, mentre Gli estivi di Luca Ricci è la storia di un’ossessione d’amore. Hanno deciso di scriversi per un giorno intero, per farsi (e farci) compagnia in questi giorni strani e sospesi, in attesa della vita vera. Ne è venuto fuori un dialogo che tocca gli argomenti più disparati, Maupassant e i Clash, la scoperta della vocazione artistica, il rapporto spesso burrascoso con la critica e la rivendicazione di essere degli irriducibili “cani sciolti”.

Luca. Nei giorni passati salivo sopra la terrazza condominiale, niente di magniloquente, più Verdone che Scola, per prendere una sbornia di sole, per cercare una ubriacatura naturale, per così dire. Io in genere dico che vado sopra il tetto. Ma oggi a Roma pioggia e vento, neanche salire sopra il tetto mi dà soddisfazione. Hai presente quando a scuola durante la quinta ora il tempo sembrava non passare mai?

A volte penso che la quarantena sia una specie di quinta ora, e siamo tutti chiusi in classe ad aspettare impazienti il suono della campanella. Mi viene voglia di ascoltare i Ramones di  Rock ‘N’ Roll High School per darmi una scossa. Resto sempre impressionato dalla velocità dei Ramones. Durante i loro primi concerti si dice che eseguissero quattordici pezzi in diciassette minuti. Da scrittore di racconti l’aspetto della velocità m’interessa molto. Proprio durante i miei anni liceali lessi per caso dei racconti di Maupassant- possiamo dire tranquillamente che era un punk- e venni travolto dal suo modo fulmineo di scrivere. Dicevo: “Anch’io voglio scrivere così!”. Era come aver trovato lavoro, e quanti anni avevo?, quindici o sedici. Forse è vera, quella storia della vocazione. 

Enrico. Li ho visti dal vivo i Ramones, due volte: Joey mentre cantava perdeva la bava dalla bocca come un cane da caccia, erano ingenui e terribili, sono morti giovani e la parte punk/romantica di me li invidia per questo. Oggi invece ho visto la foto di un vecchio signore inglese, con una anonima giacca blu, un maglione e gli occhiali a metà del naso, andava a fare la spesa: era John Deacon, uno che coi Queen ha ribaltato il mondo.  Poi ho visto il filmato degli Stones, che asfaltavano tre o quattro generazioni di musicisti dal salotto di casa.

Chi ha ragione? Lui, che dopo aver afferrato il Grande Sogno ha deciso di ricordarselo com’era o quei vecchiacci terribili che si ostinano a combattere e a vincere?  Intanto guardo le macchine dei primi ribelli o dei primi “autorizzati” che passano sotto casa mia e penso al tempo che mi stanno rubando, spingendomi verso John Deacon e lontano dai Rolling Stones.

Ormai è chiaro: ho più idee del tempo che avrò a disposizione, e questo mi provoca una rabbia mille volte superiore a quando saltavo sotto al palco dei Ramones. Rabbia e furia cieca: buon segno.

Luca. Io credo che sei hai un’attitudine artistica, per quanto siano tortuose le strade che percorrerai, tu debba sempre mantenere vivo il rapporto con quel che Pascoli definiva il “fanciullino”. La giovinezza, quel serbatoio di insoddisfazione, è la vera benzina, quello che ogni volta mi fa mettere a tavolino a scrivere. In questi giorni smorti ho riletto “Il diario del giovane Werther” di Goethe, ed è incredibile come un testo della fine del millesettecento possa parlarci in modo così chiaro della nostra rabbia, di quando eravamo giovani.

Il giovane Werther si innamora appositamente di una ragazza già impegnata per continuare a essere infelice, non solo per annegare in quel sentimento guasto ma anche per studiare l’infelicità, e la sua scontentezza cronica mi fa venire in mente tanti altri personaggi letterari, l’ipocondriaco Zeno Cosini, l’assassino per futili motivi Meursault, il ribelle Holden Caulfield. E’ sacrosanto non uccidere mai del tutto quel che siamo stati da giovani, e anche tu l’hai dimostrato con la recente reunion dei Decibel . Comunque hai visto suonare dal vivo i Ramones, adesso ti odio… 

Enrico. Posso rincarare la dose aggiungendo che, in un  Palalido nel quale tutti i seimila presenti urlavano “Decibel-Decibel figli di puttana!” dato che avevano interpretato come un tradimento la nostra partecipazione a Sanremo, io, mostrando il dito medio, entrai nel backstage per conoscerli… Come immagini non mostrarono particolare interesse per la mia persona, ma, se fossimo stati nel 2020 probabilmente potrei esporre come un feticcio un selfie dal quale magari non sarebbe trasparita la loro indifferenza…

A proposito di amori idealizzati non dimenticherei Florentino Ariza, al quale ho recentemente dedicato una canzone…

Io, invece, giusto per tenere in caldo la mia rabbia, ho riletto qualcosa di Hobbes, mi ha colpito la sua teoria per la quale le dittature si compattano solo quando qualcuno spinge la gente verso la paura di qualcosa…

…e oggi siamo tutti attanagliati dalla paura atavica della morte!

Per evitare di morire siamo disposti addirittura a rinunciare a vivere!

Luca. A proposito di rabbia, ti arrabbi mai coi critici musicali o letterari? O, almeno da quel punto di vista, ti sei emancipato dall’incubo delle passioni? Io ad esempio ho fuori il nuovo libro- lancio bislacco a librerie chiuse, manco fossi il Chisciotte contro i mulini a vento-, e stanno uscendo delle recensioni. L’altro giorno ne leggo una che sostanzialmente dice che gli amori tragici hanno rotto le scatole e che dovrei leggermi “L’amore e l’occidente” di Denis de Rougemont. Siccome sono abbastanza tignoso, recupero il testo (introvabile e costosissimo) e leggo. Ma insomma, cazzo!, Denis non ce l’ha assolutamente con gli amori tragici, anzi dice che l’occidente non ne ha mai potuto fare a meno. D’altronde uno dei pilastri dell’occidente è proprio il mito di Tristano e Isotta, che è l’amor tragico per eccellenza. I miti assolvono a dei bisogni, e non il contrario. Ripenso alla tua Contessa che è un po’ l’emblema New-wave della scontentezza, “vuoi solo le cose che non hai”.

Enrico. Hai colto uno dei miei punti deboli: leggo le critiche, ci rimango male e serbo rancore, soprattutto quando capisco che nascondono avversioni personali o preconcetti. D’altra parte nel mio mondo succede che se fai un disco sulla falsariga del precedente scrivono “non si sa rinnovare”, e se cambi stigmatizzano l’esperimento con un “non è più lo stesso”.

In più hanno quasi tutti se non un padrone almeno un “gruppo di riferimento”: i cani sciolti come me pagano pegno!  Ma abbandoniamo la tristezza: che musica ascolti in questo periodo di reclusione?

Luca. Ti dico il pezzo di oggi perché io funziono così, ascolto sempre lo stesso in loop finché non mi dice più assolutamente nulla, vado a esaurimento, e sono onnivoro, non me ne frega niente dell’alto e del basso, può essere un pezzo d’autore o una hit, basta che funzioni, che mi dia quel che sto cercando in quel momento, in quella giornata. Oggi è successo con Surfin Bird che se vuoi ci riporta al discorso dei tuoi inizi, perché è veramente il pezzo che ha anticipato e forse preconizzato il punk.

Era il 1963. Mi ipnotizza anche il video con lui gorgheggiante che fa il verso dell’uccello, sbatte le ali impazzito, e il testo non significa assolutamente nulla, ecco il senso dell’essere dei cani sciolti di cui mi parlavi. Vorrei saperne di più. Tu hai cambiato pelle mille volte, sei sempre stato più forte di tutti i movimenti e le mode, sei partito coi capelli platino alla Lou Reed, sei passato da Sanremo, hai scritto canzoni immortali come Il mare d’inverno (come cazzo hai fatto a scriverla?), ti sei dato al rock progressivo, ci vuole una grande sicurezza nei propri mezzi per compiere un percorso così. Com’è successo? 

Enrico. La mia fortuna è stata quella incostanza bulimica e curiosa che mi ha portato ad amare musicisti diversi, dai King Crimson ai Clash, da Jacques Brel a Lou Reed: tutte le 35 volte che sono andato in studio a registrare un album ho frastornato i miei collaboratori con indicazioni spesso contrastanti, che loro interpretavano secondo il loro gusto, creando un “terzo strato” per il quale la canzone usciva in quel modo solo perché era stata suonata così IN QUEL MOMENTO preciso! Una canzone dovrebbe essere questo: la fotografia di un attimo. Poi c’è il testo, e lì invece non ritengo di aver avuto maestri (almeno consciamente): avevo un sacco di cose di me che non mi erano chiare, bastava frugare dentro e le frasi uscivano da sole.

Per questo motivo non sono mai andato da nessun “grullaio” (come direste voi toscani): ho esorcizzato i miei fantasmi raccontandoli in musica, dicendo cose che mai avrei raccontato, neanche al mio miglior amico.

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