Secondo il Rapporto globale sulle crisi alimentari del World Food Programe, la pandemia da coronavirus potrebbe far quasi raddoppiare il numero di persone che nel mondo soffrono di fame acuta. Il numero rischia di superare i 250 milioni di individui entro la fine dell’anno in corso.
Dunque, se da un lato esistono raccolti ricchi e grandi riserve alimentari, dall’altro gli effetti delle restrizioni, i vari blocchi nel trasporto e nella filiera produttiva e distributiva, rischiano di produrre una crisi alimentare reale i paesi più poveri.
«Questa è una crisi della domanda e allo stesso tempo è una crisi dell’offerta e ha una dimensione globale che non ha precedenti e non offre appigli» ha osservato tra gli altri anche l’economista del Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, Husain, aggiungendo che secondo il Wfp, più saranno più di trenta i paesi che entro il 2020 potrebbero essere colpiti da una carestia che li porterà sull’orlo della fame.
La storia ci insegna che la fame e la mancanza di cibo è tra le primarie cause di rivolte sociali. E se è vero che otto miliardari di persone possiedono una ricchezza pari alla metà più povera del resto del pianeta, il problema non è tanto la statistica in sé, quanto il fatto che chi gestisce la piramide è la base fatta da 3,5 miliardi di individui e non il vertice composti dagli 8 supermiliardari, perché è la base che ne regge tutto il peso. Se la base è d’argilla la piramide prima o poi crollerà, e il vertice, cadendo dall’alto, sarà quello che si farà più male.
Il peso delle enormi disuguaglianze di reddito non riguarda soltanto la sostenibilità di un’economia sempre più fondata sul debito, pubblico e privato, di un welfare state messo sempre più sotto pressione e di un sentimento di frustrazione che sfocia spesso in rabbia politica. Le disuguaglianze minano la coesione delle società, rendono più fragili le istituzioni e lo stato di diritto, diminuiscono la sensibilità ambientale, si traducono in discrepanze di natura culturale che limitano le già scarse opportunità di mobilità sociale.
Qualunque riflessione sull’economia dovrebbe quindi focalizzarsi sulla necessità nell’interesse del pianeta e quindi del genere umano, di ridefinire le regole di distribuzione della ricchezza, affinché questa base si ampli. Vieppiù oggi, alla luce delle mutate prospettive che emergono via via che le varie economie di tutto il mondo escono dal lockdown.
Stando alle stime il pericolo più grave nei prossimi mesi di riapertura non saranno solo gli effetti sulle riserve di cibo esistenti quanto sulle semine e sui raccolti futuri. Effetti che si stanno producendo già in diverse parti del mondo. Così come dappertutto il trasporto dei beni deperibili quali frutta e verdura, sta diventando proibitivo.
Tuttavia, l’antidoto alla fame e alla povertà non è solo distribuire la ricchezza, è anche facilitare l’acquisizione di consapevolezza, da parte di chi è più povero, che le sue condizioni di vita non sono inesorabili e possono essere migliorate grazie anche a lui stesso, grazie all’istruzione e alla formazione, ma anche alla cooperazione con gli altri. Il lavoro degli economisti dello sviluppo Abhijit Banerjee, Esther Duflo, Michael Kremer, insigniti dell’ultimo premio Nobel, insiste proprio su questi aspetti.
Quale è la condizione più funzionale ad un effettivo miglioramento della condizione di vita? Nella mia sfera di influenza, cosa devo fare davvero, quotidianamente, per realizzarla?
La prosperità è democratica, la ricchezza non sempre lo è. Tuttavia, la prosperità produce ricchezza, mentre la ricchezza non necessariamente produce prosperità. Queste considerazioni possono sembrare banali, ma in un mondo che dovrà oltretutto fare i conti con gli effetti di una pandemia non è possibile dimenticare il peso della disuguaglianza sul disagio sociale e individuale.
D’altra parte, etichette come “green” e “sostenibile” sono ritenute, spesso in modo affrettato, garanzie di un modo di agire compatibile con un miglioramento di tutto l’Insieme. Allo stesso modo, l’impatto della tecnologia sulle nostre vite – ma anche sul vocabolario – viene spesso sottovalutato, così finiamo per essere “parlati” da parole che sono ostili a un’autentica evoluzione, complessiva e individuale.
In fin dei conti, quando si discute di miglioramento delle condizioni di vita, di autentica prosperità, è opportuno partire dalla vita che conosciamo meglio: la nostra. Agire in ogni momento per renderla migliore, conservando qualche minuto al giorno per riflettere sulla direzione che stiamo prendendo, sugli automatismi che abbiamo interiorizzato.
Domandiamoci se siamo grati della vita che stiamo portando avanti, se stiamo autenticamente suscitando gratitudine nel prossimo. Con il coraggio di constatare che forse la risposta è no, e cambiare tutto.