Sharp PowerL’Europa ha bisogno di una strategia per imporre la sua narrazione

Un mix di politica sostanziale e di politica teatrale permise a Roosevelt di sconfiggere i nazional-populisti del suo tempo: una formula che resta attuale per combattere i sovranisti anti-europei di oggi

In “Blink”, il suo bestseller di qualche anno fa, Malcolm Gladwell sottolineava il potere delle prime impressioni, che producono spesso effetti duraturi. A partire dalla metà di marzo, l’Unione Europea ha messo in campo una serie di misure importanti per fronteggiare la crisi del Coronavirus, ma il problema è che, quando quelle misure sono state annunciate, il “Blink” era già passato. E la prima impressione che avevano dato i paesi europei è stato quella di un si salvi chi può generalizzato e scomposto, tra chiusure delle frontiere e blocchi del materiale sanitario.

Mentre l’Italia precipitava nella crisi più grave dalla fine della Seconda Guerra mondiale, l’unico leader europeo che ha trovato parole efficaci per esprimere la sua solidarietà è stato Edi Rama, il Primo Ministro dell’Albania, che non fa parte dell’UE. Nei giorni cruciali, non solo la solidarietà tra Stati membri dell’Unione, ma l’idea stessa di un’azione comune è stata praticamente abbandonata dai principali capi di governo.

Nei discorsi storici del 16 e del 18 marzo nei quali annunciavano la messa in quarantena della Francia e della Germania, né Emmanuel Macron né Angela Merkel hanno fatto alcun riferimento alla dimensione europea della crisi.

In questo vuoto simbolico e culturale, prima ancora che operativo, hanno trovato spazio paesi come la Cina e la Russia che, con la complicità decisiva di forze di governo e di opposizione, hanno potuto portare a termine di propaganda e di disinformazione, facendo sfoggio di solidarietà e spingendo le loro versioni dei fatti in rete.

Il risultato, assurdo nei fatti, ma spiegabile sulla base di quanto si è visto e letto sui media nel corso degli ultimi due mesi, è che secondo un sondaggio recente gli italiani considerano oggi la Cina e la Russia come i loro principali amici e la Germania e la Francia come le principali nazioni nemiche.

Al di là del caso italiano, in tutta Europa si è consolidata l’impressione di una sostanziale disunione, rafforzata dal balletto delle dichiarazioni che hanno accompagnato le trattative sul piano per la ripresa.

Ora diversi indizi lasciano pensare che, al contrario di quanto è accaduto in passato, le istituzioni europee stiano mettendo a punto una risposta adeguata alla crisi che ha investito il nostro continente.

Le iniziative assunte nel corso delle ultime settimane dal Consiglio, dalla Commissione e dalla Banca Centrale Europea sono senza precedenti, sia in termini di rapidità che di dimensione. L’intesa raggiunta da Germania e Francia, comunicata lunedì pomeriggio da Merkel e Macron, apre la strada a ulteriori, positivi, sviluppi.

Questi sviluppi però non basteranno ad arrestare la disgregazione dell’Europa se non saranno accompagnati da una presa di coscienza, da parte dei dirigenti europei, della vera natura della sfida alla quale sono confrontati.

Quella in corso è una «battaglia delle narrazioni», ha detto l’Alto Rappresentante dell’Unione Josep Borrell, salvo essere costretto a constatare la propria impotenza in materia.

Accanto alla politica sostanziale delle negoziazioni e delle policies c’è una politica teatrale, fatta di simboli e di immagini (ne ha parlato in un libro recente Luigi Di Gregorio). I policy-makers europei tendono a prendere in considerazione solo la prima, che si fonda su dati di fatto, e a liquidare la seconda, fatta di percezioni e di impressioni soggettive.

Il problema è che la politica teatrale a determinare l’atteggiamento del pubblico e l’esito delle elezioni. In politica, come constatava già Machiavelli, la percezione ha sempre fatto premio sulla realtà: un dato ulteriormente rafforzato nel corso degli ultimi anni dalla proliferazione degli strumenti digitali e delle possibilità di manipolazione che essi offrono.

In forme diverse, la Cina, la Russia e l’attuale amministrazione americana ne sono perfettamente consapevoli e, tutte, fanno abbondante uso di quello che è stato definito Sharp Power, la capacità di promuovere campagne di propaganda e di re-informazione che prendono di mira le opinioni pubbliche dei paesi europei.

Per sua natura, l’Unione Europea parte svantaggiata sul piano della politica teatrale. Non è uno Stato e la sua intera costruzione è fondata sul rigetto deliberato della dimensione simbolica in favore di un pragmatismo il più possibile sprovvisto di ogni forma di lirismo.

A partire dall’inno senza parole, dalle banconote senza volti e dalla capitale senza monumenti, il deficit simbolico dell’Unione è noto e non sarà certo colmato in poche settimane.

C’è da augurarsi però che, insieme agli enormi investimenti che saranno effettuati per la ripresa economica del continente, le istituzioni europee decidano di fare anche un piccolo investimento sulla dimensione simbolica del rilancio.

Nel 2015, la Commissione ha preso atto per la prima volta dell’esistenza di una guerra dell’informazione di livello globale, creando una task force incaricata di combattere le fake news e le operazioni di disinformazione qui prendono di mira l’Europa.

In quattro anni, questa struttura ha svolto un ruolo importante, ma puramente difensivo. È indispensabile che sia ora affiancata da un’azione più proattiva, che promuova la competitività dell’Unione Europea sul piano della battaglia delle narrazioni.

Se Ursula von der Leyen desidera realmente guidare una “Commissione geopolitica”, come l’ha annunciato al momento della sua investitura, è necessario che l’Europa si doti dei mezzi che servono per rendere la propria azione visibile e comprensibile nell’età dello Sharp Power.

Non certo al fine di riprodurre le pratiche più deteriori della propaganda russa e cinese, ma per mettere a punto una strategia, di azione e di comunicazione, che permetta nuovamente ai valori europei di trovare un’incarnazione persuasiva in simboli, immagini e narrazioni. Sotto questo profilo le immagini dei leader in videoconferenza che annunciano accordi rischiano di non essere sufficienti.

Tutti quelli che pensano che sia arrivata l’ora di un New Deal europeo dovrebbero ricordarsi che il New Deal originale, quello di Franklin Delano Roosevelt, non fu fatto solo di politiche economiche e sociali, ma anche di un nuovo modo di fare politica e di comunicarla: mobilitando energie creative e intellettuali e facendo ricorso alla radio e alle tecniche più sofisticate messe a punto da quelli che si chiameranno da allora in poi gli spin-doctors.

È questo mix di politica sostanziale e di politica teatrale che ha permesso a Roosevelt di sconfiggere i nazional-populisti del suo tempo: una formula che resta attuale per combattere i sovranisti anti-europei di oggi.

(Questo editoriale è la versione aggiornata e in italiano di un articolo pubblicato in francese su Liberation)

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