Gli articoli gastronomici più interessanti degli ultimi giorni, commentati.
Questo di Lisa Abend è un articolo davvero superlativo, anche perché in tutto questo parlare di ristorazione durante la pandemia, di crisi e di rivoluzioni, riesce a cogliere alcuni aspetti ancora non dibattuti o comunque passati molto in sordina. Il pezzo racconta come i cuochi svedesi del settore fine dining (stelle e stellette) abbiano accumulato maggiore esperienza sul fare ristorazione osservando il distanziamento sociale, visto che in questi due mesi non hanno mai chiuso. E già qui c’è un bell’elemento di novità, laddove capiamo una volta per tutte non solo che le brigate si dovranno asciugare, ma anche che i menu e i prezzi dovranno farlo. Poi emerge con chiarezza quello che tutti sappiamo ma che non ci siamo detti granché: l’alta ristorazione si fonda su una clientela perlopiù straniera o comunque di viaggiatori, e il lockout mondiale ha obbligato i grandi cuochi svedesi a tornare a gettare lo sguardo nel proprio cortile. Uno scatto positivo, ci viene da dire, perché costruisce un nuovo radicamento per questi ristoranti che altrimenti sembravano isole di internazionalità che con il proprio territorio ci parlavano solo quando dovevano cucinarne i prodotti. Meglio tradurre le parole di Lisa, a questo punto: «che ci sia qualcosa di ironico nei ristoranti che sono perlopiù conosciuti per valorizzare il locale e lo stagionale, mentre servono clienti che sono tutt’altro [che locali e stagionali, ndA], sembra non essere venuto in mente a nessuno. E nonostante l’appassionata adesione all’agricoltura biologica e allo spreco zero, in pochi sembrano disposti a rinunciare alla proprio clientela da jet-set per la sostenibilità ambientale. Né c’è stato un grande dibattito sul fatto se sia un modello economico sostenibile puntare su clienti che vivono a decine di migliaia di chilometri di distanza e che hanno bisogno, in molti casi, di essere catturati da costose aziende di PR e da influencer che tendono a non pagare per i propri pasti».
Cosa puoi trovare dentro una gallina se sei molto fortunato – Munchies, 4 maggio
Lasciamo da parte per un momento tutte le questioni legate a quel noto virus. Prendiamo una boccata d’aria: l’articolo di Diletta Sereni è esattamente questo, oltre che un testo di limpido approfondimento cultural-gastronomico e un racconto documentato e dettagliato di un prodotto che l’industrializzazione del nostro sistema alimentare ha fatto pressoché scomparire dagli orizzonti a noi noti e da noi frequentati. Eppure qualsiasi allevatore di galline ovaiole o anziana contadina e cuoca potrà raccontarvi cosa siano le uova embrionali, e di come, quando disponibili, venivano usate in cucina. Oggi a rimettere mano su prodotti dimenticati come questo sono alcuni dei cuochi più illuminati in circolazione, e basta fare i nomi di Massimo Bottura, Diego Rossi e Dan Barber, tra quelli citati da Diletta, per comprendere anche la profondità della riflessione che sta dietro determinate scelte. Al punto che crediamo sia difficile non essere d’accordo con le parole che chiudono l’articolo: «Io, dalla mia gallina milanese, ho tratto una precisa semplice morale. Che quella è stata l’ultima volta che ho chiesto una gallina a pezzi. Perché dentro al suo ventre si accede a un mondo culturale e gustativo, che l’industria del cibo si è scrollata di dosso come una cosa inutile, e che noi abbiamo il dovere di rimettere sul piatto».
The Actual Experience of Virtual Experiences – Eater, 4 maggio
Sebbene sia comparso su Eater, questo articolo di Jaya Saxena non è propriamente gastronomico. Tuttavia, dice alcune cose che rientrano in questa sfera e altre che possono senz’altro avere un impatto rilevante sulla nostra riflessione sul cibo, in questa fase a dir poco straniante. Il testo si concentra sul racconto di alcune esperienze virtuali: una classe sul Gin Tonic con un bartender, una visita a un museo, un viaggio attraverso il web per ammirare alcune delle più affascinanti attrazioni mondiali, dal Machu Picchu alla Grande Muraglia Cinese. Le opportunità concesse dallo sviluppo delle tecnologie digitali sono immense, in effetti. Ma senza interazione umana potrebbero risultare esperienze monche e non pienamente appaganti. Quindi ben vengano i servizi di delivery, per tornare sul pianeta ristorazione, ben vengano (in Italia qualcuno ci ha già pensato?) le videochiamate dei cuochi/camerieri/sommellier per raccontare il cibo e il vino consegnati: servono per non arrenderci del tutto e, cosa molto importante, per supportare il lavoro di tanti bravissimi professionisti. Ma sono pur sempre dei surrogati, e un ritorno a rapporti umani non distanziati o mediati deve rimanere speranza collettiva e orizzonte dell’azione politico-sanitaria.
‘We Had to Do Something’: Trying to Prevent Massive Food Waste – The New York Times, 2 maggio
Se il tema dello spreco alimentare era già particolarmente discusso prima dell’emergenza coronavirus, non c’è dubbio che la chiusura improvvisa di migliaia di ristoranti, hotel e mense ha creato un ulteriore cortocircuito, costringendo numerosi agricoltori a fare i conti con tonnellate di prodotti alimentari freschi senza un mercato di sfogo. Questa è esattamente una delle contraddizioni più grandi del nostro sistema alimentare, pensato per produrre cibo in grandi quantità, ma incapace di distribuirlo in modo razionale ed efficiente. Negli Stati Uniti, come raccontano Michael Corkery e David Yaffe-Bellany in questo articolo, si stanno cercando soluzioni per far sì che il cibo fresco destinato a essere buttato via dagli agricoltori arrivi perlomeno ai banchi alimentari che li distribuiscono alle persone bisognose. Una prospettiva emergenziale in un momento emergenziale, che tuttavia dovrebbe farci riflettere sulla necessità di immaginare strade diverse anche per il futuro, per il tempo ipotetico in cui l’emergenza dovesse ritirarsi e darci respiro. Basti pensare, per rinforzare la sensazione di urgenza, a quanto già succedeva in epoca pre-coronavirus, con migliaia di tonnellate di ortaggi e frutti non raccolti nelle campagne perché il prezzo fissato dal mercato non rende conveniente raccoglierli. Succede anche in Italia, da anni, stagione agricola dopo stagione agricola.
Ana Roš, come trasformare la crisi in opportunità (per un paese intero) – Identità Golose, 4 maggio
Negli articoli precedentemente condivisi e commentati si parlava di sostenibilità nell’alta ristorazione e di lotta allo spreco alimentare. L’intervista di Gabriele Zanatta ad Ana Roš mette esattamente insieme queste due cose: c’è un esponente di spicco del mondo fine dining che si mette in gioco, per trasferire valore attraverso il proprio lavoro al territorio circostante, e trasformare una crisi in opportunità, lottando contro lo spreco di cibo minacciato dal lockdown. Ma soprattutto c’è l’immagine di una ristorazione (ancora una volta) illuminata che si pone come centro nevralgico di una fitta rete relazionale: da un lato i produttori, in mezzo il ristorante, dall’altro lato il pubblico che mangia, impara, capisce, e magari modifica le proprie abitudini alimentari. Il lavoro di tanti grandi cuochi nell’ultimo decennio è stato proprio questo, molto più che fare semplicemente grande cucina: un lavoro dai risvolti sociali, economici e culturali, che ha permesso a modelli spesso rivoluzionari di fare breccia in un mondo soffocato da dinamiche di lungo corso opprimenti.
Tamar Adler Will Help You Cook With Food Scraps, Deliciously – The New Yorker, 1 maggio
Un articolo delizioso di Hannah Goldfield su un libro di qualche anno fa (2012) che oggi è di grandissima attualità e che purtroppo in Italia non abbiamo mai pensato di tradurre.
My favourite restaurants: a trip down Memory Lane – The Guardian, 3 maggio
Anche questa volta non ci sottraiamo alla condivisione dell’articolo settimanale di Jay Rayner, questa volta dedicato ai suoi ristoranti del cuore, al di là delle recensioni e dei giudizi trasformati in voti.