L’accondiscendenzaL’assassinio di Walter Tobagi e l’eterna questione irrisolta degli anni di piombo

A quarant’anni dall’omicidio dell’inviato del Corriere da parte di un manipolo di dementi e di criminali che si atteggiavano a eredi dei partigiani comunisti, continua la lettura ideologica di quegli anni. Enrico Deaglio, per esempio, nel suo ultimo libro elogia i firmatari di un famigerato appello contro il commissario Calabresi sul caso Pinelli

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Nel ricordare il mio coetaneo Walter Tobagi, trucidato a 33 anni la mattina del 28 maggio 1980 da un manipolo di dementi criminali che si atteggiavano a eredi dei partigiani comunisti, Ferruccio de Bortoli scrive che in quell’epoca «la violenza politica sembrava un male inestirpabile. Anche grazie a una diffusa zona grigia di accondiscendenza borghese alla protesta con le armi».

E ancora: «Il terrorismo degli anni di piombo si nutrì a lungo dell’ambiguità iniziale di partiti e sindacati, dell’ignavia di parte della cultura e del giornalismo che in qualche modo ne subirono il fascino perverso.

L’attacco estremista allo Stato democratico si concentrò soprattutto sui moderati, sulle figure cerniera tra classi e correnti ideologiche». Posso confermare. Quando fui assunto dal gruppo Corriere, nel ’78, un caporione del sindacato mi chiese a brutto muso: «È vero che sei amico di Tobagi? Non ti vergogni?».

Questo era il clima. A colpire a morte il moderato Tobagi, in quella piovosa mattina di maggio di quarant’anni fa, fu Marco Barbone, figlio di un noto manager dell’editoria, poi convertitosi a militante di Cielle e della Compagnia delle Opere, la benemerita congregazione a cui dobbiamo tra le altre cose l’eccellenza sanitaria lombarda.

Del gruppo di fuoco faceva parte anche un altro “figlio di”, Paolo Morandini. Suo papà era un rispettato critico cinematografico, autore di un popolare Dizionario dei film che tanti tuttora consultano come un oracolo prima di scaricare qualcosa da Sky o da Amazon Prime.

Le colpe dei figli non possono essere fatte ricadere sui padri: Morandini (morto nel 2015)  era un uomo mite e perbene, e per quel ragazzo difficile dovette patire le pene dell’inferno. Ma rientrava a pieno titolo nella “zona grigia” a cui allude de Bortoli.

Non a caso la sua firma compariva, insieme ad altre 756, sotto al famoso appello sul caso Pinelli pubblicato dall’Espresso il 13 giugno del 1971. C’era praticamente l’élite della cultura italiana al gran completo, in quella lista: Fellini, Moravia, Pasolini, Bertolucci, Lalla Romano, Natalia Ginzburg, e perfino Bobbio, e Gae Aulenti e Terzani e naturalmente Dario Fo.

Tutti uniti in un «atto di ricusazione» contro le autorità inquirenti, e in particolare contro il commissario Luigi Calabresi, additato come responsabile della morte dell’anarchico: «Una ricusazione di coscienza rivolta ai commissari torturatori, ai magistrati persecutori, ai giudici indegni», di cui si chiede «l’allontanamento dai loro uffici».

In quei giorni era un sentimento diffuso e condiviso, magari avrei firmato anch’io se qualcuno me l’avesse chiesto, se non fossi stato un ragazzo senz’arte né parte, per giunta sotto le armi nel 7° Reggimento artiglieria di campagna, che nessuno si filava neppure di striscio.

Ma con quello sciagurato assembramento l’intellighenzia progressista si rese più o meno involontariamente complice della campagna d’odio scatenata contro Calabresi dai gruppi dell’estrema sinistra e in particolare dal giornale Lotta Continua.

Una campagna che un anno dopo costerà la vita al commissario. Tra i firmatari della lettera all’Espresso, c’è chi si è pentito (Paolo Mieli, Carlo Ripa di Meana, Eugenio Scalfari) chi nega di aver firmato (Oliviero Toscani), e chi (la maggioranza) non si è pentito affatto.

Ma adesso leggo (con colpevole ritardo) il bel libro di Enrico Deaglio “La bomba. Cinquant’anni di Piazza Fontana” (Feltrinelli), e scopro che quell’iniziativa «fu uno dei più notevoli atti di democrazia, di dissenso, di coraggio e di civiltà che sia stato espresso dalla nascita della Repubblica… Era il J’accuse  italiano, che non chiedeva vendetta, e nemmeno punizioni».

Certo, si limitava a definire Calabresi un torturatore e, implicitamente, un assassino. Ma Deaglio va oltre, e insinua che l’uccisione del commissario sia stata in realtà un diversivo per sabotare l’inaugurazione, prevista proprio quel giorno, martedì 17 maggio 1972, di una mostra sgradita al potere: il grande dipinto dedicato da Enrico Baj ai Funerali dell’anarchico Pinelli.

L’inaugurazione saltò e «per quarant’anni i milanesi non poterono più vedere l’opera». Una incredibile coincidenza, sottolinea Deaglio. La bomba è una lettura che smuove le viscere e fa stringere i pugni, una ricostruzione puntuale e appassionata della strage fascista più orrenda della storia repubblicana, con la sua lunga scia di depistaggi, menzogne, sentenze ignobili e processi traslocati o abortiti.

Ma sull’agguato di via Cherubini, la narrazione non convince. O almeno, non ha convinto me. Commemorando il cinquantenario della bomba, Mattarella ha riconosciuto che «l’attività depistatoria di una parte di strutture dello stato è stata doppiamente colpevole».

Una verità storica, che purtroppo non è mai diventata verità giudiziaria, ha ora il suggello della nostra massima autorità. Per la morte di Calabresi abbiamo una verità giudiziaria, per quanto discutibile e parziale, ma attendiamo ancora la verità storica.

E forse a Parigi c’è qualcuno che potrebbe aiutarci a fare chiarezza, quel Pietrostefani che Mario Calabresi nel suo ultimo libro (“La mattina dopo”, Mondadori) racconta di avere incontrato, senza peraltro rivelare cosa si siano detti.

Ha ragione Benedetta Tobagi quando dice che «non si può tollerare, come avvenuto per anni, che lo stragismo diventi un pretesto. Il terrorismo di sinistra non avrebbe avuto così tanti consensi se pezzi dello Stato non avessero avuto comportamenti vergognosi durante le stragi, ma il terrorismo brigatista non è stata una violenza difensiva. Lo stragismo è stato solo un catalizzatore: come nelle reazioni chimiche, ha agito per rendere più violenta e veloce la reazione».

E comunque, mi perdoni l’amico Deaglio, ma nel gruppone degli accusatori di Calabresi non riesco proprio a trovarci uno Zola. Neanche mezzo.

L’autore del “J’accuse” fu condannato a un anno di carcere e a tremila franchi di ammenda per vilipendio delle forze armate. Gli indignati della lettera all’Espresso hanno fatto, per lo più, brillanti carriere, spesso anche meritate. Il moderato Tobagi (che non firmò), come scrive de Bortoli, sarebbe potuto diventare direttore del Corriere. Sarebbe.