Con singolare tempismo, l’Austria e l’Ungheria hanno precisato in parallelo i contorni del loro «No» al Recovery Fund come proposto dalla Commissione europea durante il Consiglio dei ministri dell’Economia e Finanze dei paesi Ue tenutosi martedì 9 giugno.
Per i primi «il pacchetto complessivo non è accettabile in termini di volume, ma anche in termini di contenuto»; per i secondi il «Recovery Fund è ingiusto nei confronti dell’Ungheria perché in sostanza è stato creato su misura per aiutare gli Stati membri del Sud».
La marcia di Radetzky insomma.
Le posizioni austroungariche riflettono i due diversi livelli di opposizione al programma che Ursula von der Leynen ha definito Next Generation Eu. Da un lato gli autoproclamatisi “frugali” (Austria, Paesi Bassi, Danimarca, Svezia con l’aggiunta della Finlandia), frugali beninteso nell’accezione resa celebre da Ricucci, da definire invece “tirchi”; e dall’altro il fronte dei paesi dell’Est Europa, famelici beneficiari dei fondi europei.
Per i primi, tutti contributori netti al bilancio comunitario ma anche paesi che usufruiscono a pieno regime del mercato unico, la parola d’ordine è intanto salvaguardare il meccanismo di “rebate” (sconti, ma anche inteso come rimborsi, ndr) inventato per gli inglesi ai tempi della Thatcher che riduce eccessivi squilibri del dare/avere, e poi quella di munire il Recovery Fund di sufficienti garanzie sulla destinazione e l’utilizzo dei denari messi in comune.
Tutto sommato, le stesse posizioni che aveva anche la Germania prima della svolta delle scorse settimane e che possono persino avere qualche giustificazione quando si pensa all’uso certamente non da manuale dei fondi strutturali in certe regioni italiane o alle recenti esternazioni di alcuni leader nostrani sull’utilizzo potenziale del “tesoretto” europeo per fini che nulla hanno a che vedere con quanto è stato prospettato a Bruxelles.
Per i secondi, non c’è emergenza coronavirus che tenga, specie pensando all’impatto relativamente limitato che la pandemia ha avuto nei loro paesi. Nessun bisogno di solidarietà per i più colpiti, i soldi in più che saranno sborsati dai paesi della vecchia Europa dovrebbero essere ripartiti non secondo le urgenze del momento, ma secondo la formula consacrata che, tenendo conto del valore assoluto del rispettivo Prodotto interno lordo, destina loro in proporzione gli assegni più consistenti.
Se si pensa agli sforzi fatti prima per aiutarli a sfuggire al giogo del Patto di Varsavia, e poi per accoglierli come veri e propri fratelli separati nel girone europeo, consentendo ai loro cittadini la libertà di stabilimento e di circolazione e mettendo in piedi un sostanzioso e ininterrotto programma di trasferimenti finanziari per avvicinarli sempre più agli standard occidentali, si resta basiti davanti a tanta indifferenza e a tanta protervia negoziale, con rare eccezioni, su tutto quanto attenga politiche condivise, visioni comuni dello stare insieme, eccetera.
Impossibile non pensare a “Prendi i soldi e scappa” di Woody Allen, senza tuttavia l’ironia del regista americano.
La rivolta dei Ciompi costituisce innanzitutto una sfida alla kanzlerin Angela Merkel: sono i governi di molti dei paesi “satelliti”, sin qui fedeli alleati di Berlino, a ribellarsi al nuovo corso che ha rinsaldato, invece, l’asse renano franco-tedesco.
La partita, appena agli inizi, promette. Tanto che nulla sarà deciso prima che il governo tedesco prenderà le redini della presidenza semestrale Ue dal 1 luglio in poi.
All’Italia tocca in questa fase giocare di rimessa. Certo, verrebbe voglia, appunto, di una qualche Vittorio Veneto.