I mostri Fenomenologia di Carlo Calenda, l’isterico di buona famiglia che spesso dice la cosa giusta 

Giovedì esce il suo nuovo libro dove spiega che siamo un paese incivile con il solito piglio da influencer della politica, da catalizzatore di tutti gli schianti dell’Internet e da sceneggiatore della commedia all’italiana

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«Durante la campagna elettorale per le Europee ho partecipato a una delle trasmissioni più popolari in Veneto. Parterre formato da: un pellicciaio che parla con gli angeli, un imprenditore che si rifiuta (non è che non può, no, proprio si rifiuta) di pagare le tasse, una guardia nobile delle tombe dei Savoia, tre sindaci leghisti rispetto ai quali Salvini è un timido democristiano di sinistra» (Carlo Calenda, I mostri).
Carlo Calenda è un sacco di cose. È un personaggio di Paolo Virzì, l’italiano vanesio che non resiste alla lusinga d’un’imitazione e le rituìtta tutte, e se fossero ancora tempi di caricature chiederebbe l’originale autografato al vignettista e lo incornicerebbe nel salotto buono, e nulla gli leva dalla testa che there’s no such thing as bad publicity.
È uno sceneggiatore di commedia all’italiana, con quel gusto lì per il dettaglio: nei Mostri (titolo preso a prestito dal film di Dino Risi in cui c’era tutto, dalla curva di tifosi che siamo diventati al premio Strega che siamo sempre stati), il suo libro che esce giovedì prossimo per Feltrinelli, c’è Di Maio che, mentre cerca di chiudere l’Ilva, viene omaggiato del caschetto con logo della fabbrica a un congresso sindacale, lo leggi e non puoi fare a meno di immaginarti la scena interpretata da Ugo Tognazzi.
È un Giorgio Mastrota, la grande figura italiana del venditore, oggi rimpiazzato dai venditori di Instagram (che si chiamano influencer perché in inglese fa più fino), che senza ritegno ti dice che per gli approfondimenti dei temi trattati in questo libro ti devi comprare quello prima, Orizzonti selvaggi (passato alla storia dell’editoria come il libro col più brutto titolo e la più brutta copertina di tutti i tempi, per fortuna con questo si rifà, ma della copertina parliamo dopo).
È un figurante di quelli che vedi nei circoli canottieri di Roma nord, i bulli di buona famiglia, una figura che a Milano diventa Fabrizio Corona e a Roma diventa Carlo Calenda, perché Roma, digerendo tutto, non permette neanche al bullo di scartare dal segmento di mercato assegnatogli alla nascita: di buona famiglia eri e di buona famiglia resterai.
Com’è normale al circolo canottieri, Calenda indossa una Lacoste; com’è normale su Twitter, sono riusciti a rompergli i coglioni anche su quello: una polo costosa, plutocrate, sporco borghese (su Twitter usano “borghese” come insulto, come nelle assemblee d’istituto degli anni Settanta). Essendo un vero bullo, alla foto successiva Calenda s’è presentato con un’altra Lacoste, nera come la precedente ma questa con coccodrillo nero. Ufficialmente: così si vede meno e non mi massacrate. Ufficiosamente: la Lacoste con coccodrillo nero costa più di quella con coccodrillo verde, pezzenti.
È quella figura squisitamente italiana (più ancora: romana) che è la provvisorietà fatta eternità.  I mostri, primo libro nella storia recente di Feltrinelli con una bella copertina, compare su Amazon con diversi sottotitoli. Conosco il problema: Amazon mette in preordine il primo file ricevuto, poi dovrebbe cambiarlo con la versione definitiva, ma io aspetto dal 2015 che cambino la sinossi d’un mio libro in cui un editore sciagurato aveva scritto “immaginario collettivo”, e soffro ogni volta che qualcuno me lo fa notare. Il sottotitolo definitivo di I mostri è E come sconfiggerli, ma il mio preferito è uno dei provvisori: Perché l’Italia è un paese incivile. (Una domanda alla quale risponderei: perché non si riesce neanche a ottenere che i mercanti di libri ti mettano in vetrina con la copertina giusta).
Carlo Calenda è anche la disperazione di chiunque lavori con lui, immagino. Uno che con un libro da promuovere si mette a insultare il principale gruppo editoriale italiano, uno che nell’Importanza di chiamarsi Ernesto potrebbe interpretare sia la Cecily che dice «Quando vedo una vanga, io la chiamo vanga», sia la Gwendolen che risponde «Sono lieta di dire che non ho mai visto una vanga: è ovvio che le nostre sfere sociali sono assai distanti». Sia la teppista che la buona famiglia.
Per una cosa che sto scrivendo, ho catalogato tutti i più stupidi linciaggi cui ho assistito sui social negli ultimi anni. A un certo punto mi sono resa conto che, tra gli episodi italiani, uno su due riguardava Carlo Calenda. Il primo schianto non si scorda mai (quella volta che disse che non permetteva a suo figlio di giocare coi videogame, e cinquantenni in felpa col cappuccio insorsero sentendosi offesi nella loro identità di campioncini di Call of duty), ma la mia preferenza va a quella crisi di nervi che provocò con un semplice «Ora porto mia moglie a cena»: le donne non hanno bisogno d’essere portate, schifoso, venne redarguito coi toni che Gloria Steinem avrebbe avuto di fronte a Gennarino Carunchio.
Ho molte amiche carlocalendiane. Ci telefoniamo e ci diciamo: anche oggi ha ragione, quell’insostenibile isterico. Non lo sopportiamo. Non sopportiamo il suo tono saperlalunghista (chi crede di essere, me?), i suoi scatti di nervi (chi crede di essere, me?), il suo perdere giornate sull’internet a dire alle zappe che sono zappe (chi crede di essere, me?). E quindi ci telefoniamo e sbuffiamo: ne ha detta un’altra giusta, quello stronzo.
«Sai qual è il problema di questo film? Non ti appassioni al protagonista!» (Dino Risi uscendo dal cinema in cui aveva visto La passione di Cristo, raccontato da Marco Risi in Forte respiro rapido).

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