The art of the dealPerché Trump ha invitato i leader di Serbia e Kosovo alla Casa Bianca

Il 27 giugno gli Stati Uniti cercheranno di convincere i due Paesi rivali a unirsi tramite una serie di solidi accordi economici. Poi passeranno la palla all’Unione europea, lasciando che si occupi degli aspetti politici

Afp

Invitati del presidente americano Donald Trump, i rappresentanti di Kosovo e Serbia si incontreranno alla Casa Bianca sabato prossimo. L’inviato speciale Usa per le negoziazioni tra Serbia e Kosovo Richard Grenell ha chiarito senza mezzi termini lo scopo dell’incontro: gli Stati Uniti vogliono legare i due Paesi rivali tramite una serie di solidi accordi economici, per poi solo in un secondo momento passare la palla all’Ue e lasciare che si occupi degli aspetti politici, rimasti finora il fulcro della strategia con cui Bruxelles sta faticosamente provando ad avvicinare le parti.

Il presidente serbo Aleksandar Vučić si presenta all’appuntamento dopo aver ottenuto una sorta di plebiscito alle elezioni nazionali di domenica scorsa. Complice anche il boicottaggio di pressoché tutta l’opposizione, la sua formazione – il Partito progressista serbo – ha ottenuto una percentuale altissima di suffragi (circa il 63%, ovvero più di 185 seggi su 250) e potrà governare in maniera ancora più incontrastata di quanto fatto finora.

In occasione della recente visita del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, Vučić, fedele alla propria linea di sapiente equilibrismo tra potenze concorrenti, era tornato a invocare il coinvolgimento e il supporto di Mosca nelle trattative per la risoluzione dell’incandescente questione kosovara. 

Con una schiettezza apprezzabile, il presidente serbo aveva specificato come agli occhi di Belgrado l’eventuale entrata nell’Unione europea della Serbia non rappresenti una contropartita sufficiente per rinunciare definitivamente all’ex provincia meridionale riconoscendone l’indipendenza e interrompendo la campagna di boicottaggio che Belgrado conduce con successo da alcuni anni.

Un’affermazione perentoria, rilasciata anche per rintuzzare le critiche dell’opposizione, che aveva diffuso voci secondo cui l’uomo forte di Belgrado sarebbe stato pronto a fare concessioni importanti a Pristina al vertice di Washington, ottenendo in cambio il silenzio degli Usa sul profondo deterioramento dell’architettura democratica della Serbia, emersa ancora più fragile da questa ultima tornata. 

Se a Belgrado il fronte è compatto, sul versante kosovaro, invece, regna la confusione. La turbolenta sostituzione del governo Kurti, detronizzato verosimilmente anche grazie all’intervento dietro le quinte di Grenell, con un esecutivo molto più docile e ragionevole in ottica statunitense ha lasciato dietro si sé un codazzo di recriminazioni, tensioni e una società polarizzata.

La drastica fine dell’esperienza di governo della sinistra nazionalista ha illuminato nitidamente come la democrazia kosovara sia una democrazia a legittimità controllata: senza il beneplacito degli americani qualunque mossa delle autorità kosovare è mero wishful thinking.

Come caldeggiato da Grenell, il nuovo governo guidato da Avdullah Hoti, vice-premier nell’esecutivo appena decaduto, si è allora affrettato a rimuovere temporaneamente i dazi del 100% imposti dal Kosovo sugli import serbi nel 2018. Un gesto di distensione per segnalare la propria disponibilità di Pristina a trovare un accordo con la controparte serba durante il meeting in terra nordamericana.

Quale possa essere il contenuto di questo accordo resta al momento insondabile. Gli analisti si dividono e le dietrologie si rincorrono. Se l’obiettivo base rimane la cancellazione definitiva dei dazi da parte di Pristina e la fine della “campagna di de-riconoscimento” del Kosovo perseguita dalla Serbia, l’opzione più ingombrante sul tavolo resta quella dello scambio di territori, ventilata per la prima volta due estati fa da Vučić e dall’omologo kosovaro Hashim Thaci.

La Serbia cederebbe al Kosovo la valle di Presevo, un’area abitata in maggioranza da albanesi, ricevendo in cambio la provincia di Mitrovica, bastione della minoranza serba nell’ex provincia meridionale. 

Questo scenario, che ai non addetti ai lavori potrebbe anche apparire una scelta razionale, è visto come fumo negli occhi dalle cancellerie europee, Germania in testa. Visto l’esito disastroso che i precedenti tentativi di scambi di territorio in ex Jugoslavia hanno generato in termini di conflitti, i partner dell’Unione sponsorizzano una soluzione politica che non implichi spostamenti né di confini né di popolazioni, da confezionarsi sotto l’egida di Bruxelles.

Il timore, considerabile fondato a fronte dei precedenti, che uno scambio di territori inneschi un effetto domino nella regione – sono vari i territori in lizza per replicare la stessa soluzione – consiglia ai 27 un approccio cauto, diplomatico e finalizzato a trovare soluzioni durature.

L’opposto di quello adottato da Washington. Da quando è stato nominato, Grenell, emulo di Trump, ha esibito una posa spregiudicata e realista, propugnando una sequela di accordi tecnico-economici e relegando in secondo piano il processo di convergenza politica tra i due antagonisti. L’ex ambasciatore Usa in Germania non sembra curarsi troppo degli effetti sul lungo termine della propria percussione diplomatica. 

Coerentemente allora, Grenell aspira a fornire al proprio presidente, in caduta libera nei sondaggi nazionali, un successo di politica estera tramite un summit ampiamente mediatizzato, sull’esempio di quelli di Singapore (2018) e Hanoi (2019) con Kim Jong-un. Al momento, infatti, nonostante le promesse stratosferiche di Trump in campagna elettorale e le sue successive iniziative a favore di telecamera, il bilancio dei risultati conseguiti dal magnate newyorchese restituisce un quadro sconfortante: le trattative sulla denuclearizzazione della Corea del Nord si sono arenate; in Siria e persino in Libia sono ormai Russia e Turchia, spalleggiate dai rispettivi alleati, a spartirsi la torta; il ritiro dall’Afghanistan si sta trasformando in una fuga disonorevole; vessati e bistrattati durante questi tre anni e mezzo di presidenza Trump, gli alleati si fidano sempre meno della Casa Bianca.

Tra questi, notoriamente, è l’Ue quella più frustrata dall’unilateralismo predicato dal presidente statunitense ome traspare anche nel quadrante balcanico.

Le dichiarazioni di Grenell sui due tempi del negoziato con Serbia e Kosovo – prima spetta agli Usa finalizzare un’intesa economico-commerciale, poi può subentrare l’Ue a gestire la convergenza su tematiche politiche – è nei fatti una sconfessione dell’approccio tradizionalmente condiviso dal blocco occidentale.

Con l’imminente vertice in patria, gli Usa mettono nero su bianco la loro ormai conclamata volontà di giocare da soli, non più da primus inter pares, seguendo sempre e comunque i propri interessi nazionali. Interessi che, come emerso nel caso ucraino, spesso vengono inoltre fatti coincidere con quelli dell’attuale inquilino della Casa bianca e del suo entourage

Dal canto suo, della propria emarginazione dalla penisola balcanica l’Unione europea è corresponsabile. Le nomine dello spagnolo Josep Borrell ad Alto rappresentante della politica estera e dello slovacco Miroslav Lajčák a Rappresentante speciale Ue per il dialogo Belgrado-Pristina, esponenti di due dei cinque Stati membri che non riconoscono il Kosovo, ha ulteriormente minato la credibilità di Bruxelles nella regione. Proprio il fatto che non tutti i 27 riconoscano il Kosovo obbliga l’Ue a mantenere una posizione neutrale su un tema dirimente: riconoscere o meno uno Stato con cui si ambisce a interloquire e che dovrebbe venire addirittura integrato in un futuro sempre più remoto. 

Se davvero l’incontro di Washington porterà a una svolta epocale della tormentata relazione tra Belgrado e Pristina, lo si potrà valutare solo in seguito. Difficilmente però ne uscirà rafforzato il sempre più labile legame transatlantico. 

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